Come i lettori avranno sicuramente notato sono anni che seguo il tema della Via Francigena, scrivendone ogni volta che se ne parla nei convegni il cui fine è appunto quello di ripristinare l’antica Via Peregrinorum, sulla base dell’itinerario del vescovo Sigerico, X secolo. E molto si è fatto, dal restauro di segmenti di percorso che, nel tempo, erano stati sepolti dalla terra o dai rovi (o, peggio, dai rifiuti) alla creazione di infrastrutture, come foresterie, ostelli ma anche luoghi dove mangiare senza spendere molto (infatti è stato varato il “menù del pellegrino”). Dicevo “segmenti” perché ripristinare per intero la Francigena originaria è impossibile, tuttavia se ne è recuperata buona parte ed ora, finalmente, risulta percorribile dal Passo del Gran San Bernardo a Roma.

Partiamo in sei dalla Stazione Tiburtina, con un pulmino che ci lascia ad Acquapendente, la submansio IX della mappa di Sigerico, dove inizieremo il nostro cammino verso l’Urbe, con tappe a Bolsena e Montefiascone, fermandoci a Viterbo. In tutto 60 km., diciamo che per ora è solo un “assaggio”, per capire come funziona la logistica lungo la via ma, soprattutto, come reagiamo noi, montanari certo, abituati quindi a camminare, ma questo del pellegrinaggio è un altro discorso. E subito troviamo il “clima” adatto, sosta notturna presso la Confraternita di San Rocco, una canonica trasformata in foresteria dove incontriamo dei viandanti, italiani e stranieri. In particolare due ragazzi della Repubblica Ceca, che sono giunti da Praga a piedi, nove settimane di cammino, Roma quale tappa finale. Io ed i miei compagni restiamo ammirati dall’impegno di questa coppia che ha seguito il tracciato dell’antica Romea Germanica, tanto di cappello.

Alle 8 il via, ma prima una doverosa visita alla maestosa Cattedrale del S.Sepolcro, nella cui cripta i romei sostavano in meditazione, innanzi alle reliquie dell’aula del Pretorio di Gerusalemme. E la cripta stessa evoca il S.Sepolcro gerosolimitano, preparando il pellegrino all’imbarco per Terra Santa a Brindisi o Otranto, al termine della Francigena sud. Ed ora siamo su una strada bianca che s’inoltra fra i campi, dove la terra rivoltata dall’aratro si accinge al sonno invernale. Ai lati cespi di rovi dove cogliamo more tardive poi, dopo una diecina di km., San Lorenzo Nuovo con la sua caratteristica piazza ottagona, cittadina settecentesca d’impianto ideale che sostituiva quella vecchia, a valle, i cui abitanti furono decimati dalla malaria. Piccola sosta e rapida visita (bel Cristo romanico nella chiesa), quindi s’imbocca un sentiero panoramico con splendida vista sul Lago di Bolsena, le isole Martana e Bisentina in rilievo, non essendoci foschia. Al 24° km. si stagliano le torri del castello di Bolsena, submansio VIII, e qui, nel centro storico, nel convento delle religiose del SS.Sacramento, ci accoglie la dolcissima suor Filippina.

Una sciccheria, camere a tre letti con bagno, rincontriamo i ragazzi cechi e conosciamo altri pellegrini, fra i quali una vigilessa di Bergamo che scende dal Passo della Cisa. In serata visitiamo la bella collegiata romanica di S.Cristina, giovane martire cristiana, ricca di opere d’arte (affreschi, uno splendido polittico di scuola senese e non meno splendide terrecotte di scuola dellarobbiana) e delle memorie della Santa, la Cappella del Miracolo e la Grotta con l’altare dove si verificò il prodigio (bel ciborio altomedioevale). Notte tranquilla e via presto, con un sentiero che ci porta verso le sorgenti del Turona, nell’omonimo parco, un folto bosco misto (cerro, roverella, carpino) che in taluni punti fa come da galleria arborea. Costeggiamo un ruscelletto che qua e là forma delle cascatelle e, attraversato un ponte (ma un tempo, soprattutto quando c’era piena, il torrente si varcava passando sui massi, una fune stesa fra le due rive quale corrimano. Il tutto è ancora visibile), usciamo dal bosco immettendoci su una strada bianca.

Adesso il percorso diventa un po’ monotono ma così è la Francigena, alterna bellezza a spazi anonimi e, inoltre, bisogna anche considerare che taluni tratti sono quasi inventati perché l’alternativa sarebbe la strada carrabile, la provinciale o la Cassia, in entrambi i casi pericolosa per il viandante. E, poi, ci sono i diverticoli, le varie  diramazioni che sono tipiche di tutta la rete viaria medioevale. Ma torniamo a noi. Dopo 18 km. si delinea la submansio VII, Montefiascone, dove saremo ospiti del Monastero di S.Pietro e qui di nuovo i cechi ed altri pellegrini incontrati lungo la via (una tedesca che scende da Pavia ed un belga da Besancon, con all’attivo ben otto volte il Camino de Santiago). Una suora appone il terzo timbro sulle credenziali e, nel frattempo, do una scorsa al registro delle presenze: vengono da tutta Europa, fin dall’Estonia, e da fuori, Canada, Australia, qualche americano. Di nostrani non molti, scout, associazioni religiose, ma da qualche tempo gli italiani sono in aumento ed è bello, quando ci s’incontra, scambiarsi l’antico saluto dei pellegrini, “buon cammino”, in tutte le lingue.

Obbligatoria la visita a San Flaviano, magnifica chiesa romanica composta di due livelli, di una bellezza che toglie il fiato. A cominciare dall’interno trinavato dove s’innesta il piano superiore, quasi formando un matroneo. E le colonne con i capitelli sui quali sono scolpite le fantastiche figurazioni del bestiario medioevale, allegorie scaturite dall’inconscio collettivo dell’epoca, profondamente manicheo (emblematica la figurina azzannata ai lati da due leoni, cioè la creatura contesa fra il bene ed il male). E il ciclo di affreschi, assolutamente superbo, con il classico tema del Trionfo della Morte, tipico del medioevo (vedi il camposanto di Pisa) e poi proseguito nei secoli successivi, soprattutto dopo la Controriforma, con quello del “memento mori”, particolarmente nella pittura. Nella chiesa superiore, pure trinavata, pareti spoglie e, al centro il trono gotico di Urbano IV, il papa che istituì la festa del Corpus Domini (in seguito al miracolo di Bolsena). E, ovviamente, non può mancare una visita alla tomba di Giovanni Fugger, con la famosa scritta “Est Est Est”, un vino così eccellente che ne abusò al punto di trapassare da questa vita.

Quarta tappa, verso Viterbo, 20 km. E, subito fuori città, inizia la parte forse più suggestiva del percorso: la Cassia Antica. Camminiamo sui basoli, un tratto lungo e ben conservato, ai lati piantagioni di kiwi alternate a vigneti, l’ombra degli alberi che fa come da cornice. Procediamo in silenzio, la bellezza del posto ci sta ammaliando ma è soprattutto il senso di qualcosa che viene da lontano, la gioia e il dolore di generazioni che hanno calpestato queste pietre, la fede che animava torme di pellegrini diretti alla tomba di Pietro e molti morivano per strada, per accidenti o rapine, o finivano in quarantena nei lazzaretti. Avverto davvero delle vibrazioni, la presenza del “genius loci”, e allora tiro fuori gli appunti e declamo ad alta voce l’Inno dei Romei, coinvolgendo anche gli amici. E’ un momento intenso, nel quale si annulla il tempo e lo spazio e diventiamo per un attimo pellegrini nell’accezione vera del termine, come metafora della vita (“O Roma nobilis, orbis et domina, cunctarum urbium excellentissima”, così inizia l’Inno, di commovente bellezza e mi piace pensare che proprio qui lo cantava un gruppo di Romei, nell’anno 1000).

Cosa guida sulla Francigena tutti quelli che abbiamo incontrato?  Qual è il motivo per cui macinano chilometri e neanche avvertono la stanchezza? “Spirituality” mi dicono gli stranieri, da intendersi nella doppia versione di religiosità (la tedesca, evangelica, la vigilessa bergamasca che ha ritrovato la fede alla vigilia della partenza e vuole viverla proprio grazie alla “peregrinatio”) e spiritualità, ovvero senso del sacro che può avere un laico, magari anche un ateo (i ragazzi cechi, altri italiani incontrati sulla strada, noi del gruppo romano). Di certo per intraprendere il cammino sulla Francigena occorre una motivazione, qualcosa di importante che giustifichi la non lieve fatica e, soprattutto, induca ad un rapporto di autostima. Perché il nucleo primario resta l’io, l’andare al centro di se stessi e trovare un punto di equilibrio: una lucidità che può e deve aiutare nel cammino quotidiano.

Antonio Mazza