Il Diario di Jessica, il racconto di una ragazza che nella montagna ha trovato una guida ma soprattutto un motivo per tornare a respirare a pieni polmoni e continuare a sorridere.
“La montagna più alta rimane sempre dentro di noi”, così citava il grande Bonatti; ma partiamo dalle origini.
Tanto piacere cari lettori, mi chiamo Jessica Bertozzi, sono nata il 13 giugno 1993 ed abito in un bellissimo paesello chiamato Travagliato, in provincia di Brescia. Nella vita faccio l’infermiera e lavoro in psichiatria, ambito che mi ha da sempre affascinato. Era il mio sogno lavorare in questo settore e posso dire di essere riuscita a realizzarlo.


La mia storia
Oggi mi trovo a scrivervi per raccontare una storia, la mia storia, quella che ho taciuto per più di due anni.
Tutto ha inizio nel 2018, un anno di sofferenza, che mi ha messo a dura prova sia fisicamente che mentalmente. Stavo vivendo una vita felice, tutto sommato normale, a fianco di una persona che amavo immensamente (M.) e con cui immaginavo di costruire una famiglia. Tutto cambiò ad aprile, quando la mia convivenza non andò a buon fine e la mia relazione si sgretolò; inutile dire che con essa se ne andò anche un pezzo del mio cuore. I mesi successivi furono bui, cupi, tristi; le giornate mi scivolavano addosso come se non esistessi più, come se fossi ormai morta dentro. La morte, tuttavia, era più vicina di quello che pensavo.
Ancora provata da questa situazione, in agguato c’era un altro incubo, come se non avessi provato già abbastanza dolore. 12 ottobre 2018, un giorno monotono e infelice come tutti i precedenti, una data che mi cambiò profondamente la vita. Ricordo ogni dettaglio come se fosse ieri, anche il più insignificante ed ora ve ne parlerò.
Mi ero organizzata con la mia migliore amica (F.) per andare a mangiare una pizza in una rinomata pizzeria della zona; uscire mi aiutava a distrarmi dai miei pensieri, dagli attacchi di panico e dall’ansia che verso tardo pomeriggio mi faceva sempre visita. Luogo stupendo, pizza buonissima, anche se un po’ costosa, ma un dolorino al fianco sinistro mi infastidiva da quando ero uscita di casa. Dopo cena decidemmo di andare a bere una tisana al bar di paese e il dolore cominciò ad aumentare, fino a diventare insopportabile. Brividi, freddo e febbre alta, dunque pensai subito ad una banale influenza, visto anche il fatto che avevo tosse da alcuni giorni. Tachipirina, le solite goccine di lexotan e così passai la notte; ma il risveglio portò alla luce che la situazione era molto più grave di quello che si potesse immaginare.
Il malessere
Ogni minimo movimento mi portava ad urlare per il male toracico che provavo; ci fu poi la corsa in ospedale ed il dovere accettare di essere lì per la prima volta come paziente. L’attesa, le analisi, i miei genitori chiusi in sala d’aspetto e il dolore che continuava ad aumentare. Ho capito di rischiare la vita nel vedere lo sguardo del radiologo mentre refertava la mia TAC: embolia polmonare bilaterale con simil infarto polmonare, esito della pillola che assumevo per dismenorrea; ma il peggio arrivò dopo. Trasferita in terapia intensiva e rimpilzata di morfina, ma questo non bastava a placare la sofferenza; ricordo che urlavo a scuarciagola ed in continuazione, tanto che i medici ipotizzarono di mettermi in coma farmacologico.
Neanche a farlo apposta, il punto nel quale sentivo quel dolore tremendo era lo stesso in cui ho tatuato “amati tu”, che inizialmente era stato fatto per M. e a cui poi feci aggiungere davanti “amati”; questo per ricordarmi che avrei dovuto prendermi più cura di me stessa. Che brutti scherzi che gioca il destino a volte. Piano piano il dolore si attenuò e dopo circa 10 giorni fui dimessa dall’ospedale; tornai a casa e ripresi la mia triste vita, che lo diventò ancora di più.


13 gennaio 2019: la rinascita
Una persona a me molto cara (A.) mi fece conoscere il trekking, portandomi in Corna Trentapassi; ad ogni metro il cuore batteva sempre più forte ed il respiro era sempre più difficoltoso. Faceva freddo e non avevo nemmeno l’abbigliamento tecnico adeguato, risentivo dei postumi dell’embolia ed avevo paura mi potesse capitare nuovamente qualcosa di brutto. A., tuttavia, sapeva che era necessario arrivassi in vetta e fu un ottimo motivatore, standomi vicino passo dopo passo. Ero stremata, temevo di non farcela e non riuscivo nemmeno a capire il perché di tutta quella fatica. Arrivata in vetta mi buttai letteralmente sotto la croce e passai sdraiata almeno 10 minuti; ma una volta alzato lo sguardo, tutto fu chiaro ed illuminante.
Una serie di emozioni mi attraversarono il corpo ed il tasto di accensione fu spostato su “ON”; finalmente potevo RESPIRARE, cosa che non facevo da quasi un anno. Ci fu la gioia di essere riuscita ad arrivare a 1248 m, la purificazione dell’anima e la sconfitta dei demoni interiori; la meraviglia per ciò che vedevo, inoltre, mi lasciò a bocca aperta e mi fece piangere a dirotto; non ho mai ringraziato abbastanza A. per avermi fatto scoprire questo fantastico mondo, che è stato il mio punto di partenza. Come un’araba fenice potevo dire di essere finalmente rinata, pronta ad aprire le mie bellissime ali e planare così sulla vita. Questa vetta diventò dunque il mio posto speciale, dove tutto iniziò e dove ogni volta che ci metto lo scarpone finisco per emozionami. La mia passione per il trekking è dunque nata così, in circostanze spiacevoli ma, ora mi dico, necessarie.


La montagna
Quando mi chiedono cosa significhi per me la montagna, mi trovo sempre in difficoltà; per me è diventata tutto. La montagna è stata la mia cura, la mia salvezza, il mio trampolino di lancio per una nuova vita; mi ha insegnato tanto, mi ha fatto maturare, ha fatto si che conoscessi i miei limiti e li superassi. È stata il mio filo di Arianna in un labirinto apparentemente senza via d’uscita, il mio faro in mezzo al mare del caos, la mia luce in un tunnel tenebroso.
La montagna è stata un bravissimo psichiatra, una fedele migliore amica, una madre premurosa ed una buona consigliera. Questa è la prima volta che metto nero su bianco tutto ciò che mi è capitato e sento quindi di avere raggiunto un altro traguardo; per me non è mai stato facile parlarne, perché significava tirare fuori nuovamente il dolore dal cassetto del dimenticatoio in cui l’avevo messo, dove era chiuso a chiave; è stata dura, lo ammetto, ma ne è valsa la pena, ora mi sento più leggera. Ciò che tengo a dirvi, soprattutto a chi sta passando delle situazioni analoghe alla mia, è quanto la natura possa aiutare in questi momenti; non sottovalutatela. Vi saluto con una metafora a me molto cara; mi piace pensare che la vita sia come un lungo trekking: faticoso, a tratti snervante, facile in discesa ma arduo in salita (per non parlare degli odiosi falsipiani), imprevedibile, a volte pericoloso, il tempo può cambiare da un momento all’altro, passando da un magnifico sole ad una tempesta, è questa la montagna; ma quando finalmente si arriva in cima, il panorama ripaga ogni fatica fatta ed è proprio quando si volge lo sguardo all’orizzonte che si comprende una cosa importantissima: siamo proprio, nonostante tutto, dove dovevamo essere.
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