Camminare: “Il senso di abitar-ci”
Iniziare un cammino, qualunque esso sia, non è di certo una cosa semplice. C’è sempre una paura che ti accompagna, una paura che, ad ogni passo, ti fa credere che qualcosa non stia andando come dovrebbe. Sono convinto che qualcosa di essenziale, però, ti apre una prospettiva nuova: il desiderio. L’esperienza del desiderio credo che sia esperienza di una forza, di una spinta che sovrasta e supera noi stessi, per arrivare al prossimo. Il riconoscersi mancanti di qualcosa e, quindi, desiderosi di camminare, è ciò di cui abbiamo bisogno, oggi più di ieri. In particolar modo, il cammino peregrinante è un movimento di equilibrio tanto esteriore, quanto interiore. Con lentezza si percorre e ci si percorre, senza pretese, senza paragoni, perché ciascuno, nella sua unicità, è invitato ad aprire il proprio cuore a se stesso e agli altri. Anche quando non si sa bene di cosa si tratti, anche quando il rischio e le fatiche possono apparire maggiori alle nostre capacità, dobbiamo avere il coraggio, che viene dal cuore, di farlo. È la mancanza delle nostre sicurezze e certezze quotidiane che ci mette alla prova e ci interroga sulle vere intenzioni del viaggio, del nostro camminare, del nostro proiettarci in avanti, sulla strada. Ciascuno, quindi, non può che darsi delle risposte guardandosi dentro con sincerità e piccolezza.
Il cammino di Santiago, considerato il Cammino per eccellenza, è stata per me una esperienza di un movimento di fiducia interiore che mi ha consegnato la possibilità di riflettere e vivere in profondità quello che più di intimo mi possiede e che, a volte, si fa fatica a ri-conoscere ed esprimere. I passi sulla via giacobina, seppur a volte faticosi, ci aiutano a far emergere – in maniera parziale o talvolta totale – ciò che siamo, con autenticità. Scegliere di camminare significa darsi tempo, rinunciare alla fretta e alla non-essenzialità del quotidiano. Significa liberarsi dal superfluo e trovare il modo di rischiararsi di una realtà nuova, migliore e, sicuramente, più necessaria. Il camminare, e nel mio caso il camminare insieme, ti permette di comprendere che la nostra storia, la nostra esistenza diventa tale perché rivolta verso qualcosa, verso Qualcuno che è e rimane diverso da me, per questo speciale. Esistere, infatti, significa avere la capacità di Essere e di esser-ci pienamente, oltre che per noi stessi, per gli altri. Senza distinzioni.
Diversi sono stati i momenti belli vissuti insieme al gruppo e grazie anche ai padri e alle suore di don Guanella che con dedizione ci hanno accompagnato passo dopo passo e che ci hanno fatto scorgere l’importanza della famiglia in cammino, tutte e tutti accomunati da diversi desideri ma rivolti verso un unico obiettivo. Dialoghi, momenti di convivialità e di riflessione, sguardi, sorrisi e talvolta fatica e stanchezza ci hanno permesso di scorgere la Bellezza che abita in ognuno di noi. Mi sento di dire – perché mi sgorga sinceramente dal cuore – che dobbiamo ritornare a prenderci cura delle relazioni perché esse, in fondo, ci permettono di vivere con più senso la nostra esistenza. Nessun incontro è privo di significato. Questo l’ho sperimentato e lo posso testimoniare. Ogni singolo incontro è dono ed è dono solo se, in quanto donato a noi, lo accogliamo integralmente. Questo il cammino fa, ci da la chiave (e noi l’abbiamo avuta veramente!) per aprirci all’altro, rispettandolo e amandolo. Forse è un appello, forse è un monito, ma sento che sia necessario un recupero totale delle relazioni che diventano baumaniamente sempre più fluide, mancanti di stabilità e significato, di appartenenza e corresponsabilità. Un modo, quello di condurre le relazioni oggi, che ci logora e ci fa sentire soli anche se in molti. Una solitudine che imprigiona quello che di bello abbiamo da comunicare a noi stessi, agli altri e al mondo. Dobbiamo abitare la solitudine come essa abita in noi e trasformarla in qualcosa di positivo e costruttivo, solo così possiamo dirci seriamente umani.
Ma mentre si torna a casa cosa resta? Resta il tempo della narrazione che si è fatta memoria e che deve necessariamente trasformarsi nel tempo della responsabilità generosa, di nuove possibilità che ci permettono di compiere quelle cose grandi che il Cammino in sé ci ha narrato, meravigliandoci e facendoci sussultare. Non resta altro che agire.
Desidererei narrare tante altre cose ma concludo e lo faccio prendendo in prestito le parole del grande pensatore Martin Buber, che cito puntualmente: “C’è una cosa che si può trovare in un unico luogo al mondo, è un grande tesoro, lo si può chiamare il compimento dell’esistenza. È il luogo in cui ci si trova questo tesoro è il luogo in cui ci si trova.”
La maggior parte di noi – afferma Buber – giunge solo in rari momenti alla piena coscienza del fatto che non abbiamo assaporato il compimento dell’esistenza autentica, compiuta, che è vissuta, per così dire, ai margini della stessa. Eppure non cessiamo mai di avvertire la mancanza, ci sforziamo sempre, in un modo o nell’altro, di trovare da qualche parte quello che ci manca. Cerchiamo e cerchiamo sempre in altre parti, dimenticandoci che il tesoro sta proprio lì dove siamo. Solo lì e da nessuna altra parte. Quello che resta – in potenza ed azione – è, quindi, la possibilità di instaurare un rapporto con il piccolo mondo che ci è stato affidato.
Quello che sento di consegnarvi, perché anzitutto lo ripeto incessantemente a me stesso – per il Cammino e non – è di saper scorgere quel tesoro lì dove siamo, lì dove ogni giorno siamo posti a compiere la struggente ma straordinaria peregrinatio della Vita.
g.c.
* Il cammino dell’uomo di M. Buber, ed. Qiqajon, pag. 59.
G.C.