Camminare tra le ferite: il viaggio di Edoardo nelle Terre Mutate
Nell’estate di circa 6 anni fa, Edoardo decide di mettersi in cammino lungo uno dei percorsi più simbolici d’Italia: il Cammino nelle Terre Mutate, tra Fabriano e L’Aquila. Un itinerario che attraversa i luoghi colpiti dai terremoti del 2009 e del 2016, ma anche le storie di chi ha scelto di restare, ricostruire, resistere. Questo diario non è solo il racconto di 60 chilometri percorsi a piedi, ma il ritratto vivido di un’umanità spezzata e tenace, di incontri inattesi, paesaggi che cambiano l’umore, fatiche fisiche e scoperte interiori. Un viaggio che comincia con l’illusione di un cammino slow e rilassato, e si trasforma presto in un confronto diretto con la fragilità del territorio — e la propria. Tra sbagli, deviazioni, carcasse, scorci poetici e segni del sisma ancora impressi sulle case, Edoardo ci accompagna in un racconto sincero, crudo e necessario. Perché le Terre Mutate non sono solo un luogo geografico, ma anche uno spazio emotivo da attraversare con rispetto.
Il Cammino nelle Terre Mutate è stato una messa in sicurezza personale. Per quanto non sia riuscito a compiere tutto il percorso che mi ero prefissato, quei soli tre giorni sono stati rigeneranti e ricchi di incontri significativi. Nel 2019 era la prima volta che intraprendevo da solo un percorso così lungo a piedi e le mie ingenue premesse di godermi un viaggio slow, yeah, rilassato, si sono giustamente infrante dopo il primo giorno. Mantenere il ritmo delle tappe non ha niente di lento ed è stata la fatica più grossa; svegliarsi presto al mattino e camminare tutto il giorno al caldo nella settimana più bollente dell’estate, è stato altrettanto duro. Tutta fatica ripagata dai luoghi, dalle storie e dal paesaggio, ma l’espressione “godersi il viaggio” ha assunto un altro valore.
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Tappa 01: Torino – Ancona – Fabriano – Matelica
La scelta dei mezzi e dell’orario di partenza credo sia stata la peggiore possibile: viaggio notturno in bus con arrivo alla stazione di Ancona intorno alle cinque di mattina, treno regionale fino a Fabriano, partenza della tappa a piedi. In pratica, da spavaldo impreparato, avevo trascorso insonne l’ultima notte prima del viaggio, con un vicino che sottolineava russando nel mio orecchio ogni chilometro percorso. Arrivato a Fabriano, Al Bistrot L’Angoletto, lauta colazione e ritiro della credenziale e poi via verso mirabolanti avventure.
Dopo un’interminabile sterrata dove mi parve di vedere diversi animali guida, ricordo con gioia il momento di arrivo a un bivio con il segno del sentiero a indicarmi la via più in salita. C’è una legge pratica su questo, imparata durante gli anni di scoutismo, che dice: “ammesso che il sentiero esista, sicuramente è in salita” ed io, in quel frangente, non mi aspettavo niente di diverso.

A pomeriggio inoltrato, imparai una cosa che, da persona nata e cresciuta in città, non avevo ancora imparato: l’odore della morte. Lanciato a testa bassa e a passo deciso per superare un’impegnativa salita, non vidi la deviazione del sentiero e arrivai a una fattoria deserta in cima a una collina, in mezzo al nulla, con cani da guardia feroci, legati a catene senza fine, stalle di pecore e maiali spaventati da morire, colonie di gatti guerci, spelacchiati, senza coda. Tra mille timori, senza incrociare anima viva umana, superai la cascina in stato di quasi abbandono, i trattori del secolo scorso e la roulotte che mi immaginai essere una specie di capanno degli orrori. Questo squarcio di vita campagnola si concluse con la fine del sentiero e, pensai, della mia vita.
Mi appoggiai, col fiatone, sudato che ormai non me ne rendevo nemmeno più conto, a un misero e spoglio albero. Guardingo e stralunato, andai in esplorazione per cercare tracce di una pista e fu in quel frangente che mi colse una folata di morte. Lo stomaco arrivò alle corde vocali e sputò fuori un urlo sordo, fatto di succhi gastrici e suoni gutturali, girai lo sguardo verso la fonte di tutto quel marciume e per la prima volta i miei occhi videro una carcassa di una bestia morta, orrenda, ridotta a un ghigno. Quel che restava di una pecora era lì, sanguinolenta in mezzo all’erba alta, sotto il sole di luglio che lentamente la cuoceva.
Schifato e ancor più spaventato corsi indietro e presi l’unica decisione possibile: riattraversare la fattoria sperando di non dare nell’occhio. Inutile dire che i cani si misero ad abbaiare senza sosta e una signora baffuta, con quattro denti in bocca, vestita di un grembiule smanicato e ciabatte dalla plastica forata intrecciata, sbucò dall’aia per iniziare a urlarmi qualcosa in marchigiano. Mi avvicinai verso la mia aguzzina che altre volte avevo visto nella mia mente senza riuscire a identificarla e finalmente capii le sue parole: “non fa niente.”
Era riferito al cane rabbioso che abbaiava senza sosta o mi voleva perdonare per qualcosa che non sapevo di aver commesso? Con la voce un po’ balbettante le chiesi indicazioni sul sentiero, mi disse di attraversare i campi di fronte e andare fino alla quercia che, in linea d’aria, stava poco più in là. Ancora intimorito le dissi grazie e ripartii in fretta; solo allora vidi l’uomo qualche passo dietro di lei e collegai dove avevo già visto quella donna: non era precisamente lei, ma un suo ritratto, di spalle, che sta sulla copertina di un libro.

Quella donna risoluta, che probabilmente zittiva cani e marito allo stesso modo, era per me la contadina sulla copertina de L’anello forte, il libro di interviste alle donne, alle custodi della comunità contadina. Sollevato dallo scampato pericolo, mi ritrovai a camminare con la sensazione di avere anche quel pezzo di mondo in tasca. Arrivai alla quercia e mi resi conto di come fosse cambiato il mio umore in funzione del paesaggio intorno, adesso bellissimo.
Intravedevo le prime case sparse che mi davano l’idea di essere abitate e la voglia di arrivare accelerava il mio passo. Mi fermai alle porte di Matelica, accolto da Casa Deimar, a farmi spiegare che cos’è il bordone, il bastone del pellegrino, e a scambiare quattro parole con la famiglia che si prende cura degli ospiti. Mi dispiace molto per Enrico Mattei, ma per la troppa stanchezza, evitai di visitare la sua città.
Tappa 02: Matelica – Camerino
Al risveglio il fresco era piacevole, la colazione anche, ma persi tempo a ritirare la mia roba nello zaino. Per il futuro dovevo diventare più efficiente. Ascoltando una dritta datami la sera prima dal figlio di Casa Deimar, tornai leggermente sui miei passi per tagliare qualche chilometro e ricongiungermi al sentiero principale in vista di Camerino che rimase sullo sfondo per tutto il mattino. Il paesaggio mi sembrava davvero famigliare, per quanto non fossi mai stato lì.
“I simboli che ciascuno di noi porta in sé, e ritrova improvvisamente nel mondo e li riconosce e il suo cuore ha un sussulto, sono i suoi autentici ricordi. Sono anche vere e proprie scoperte. Bisogna sapere che noi non vediamo mai le cose una prima volta, ma sempre la seconda. Allora le scopriamo e insieme le ricordiamo.”
Questo pensiero di Cesare Pavese scritto all’inizio del saggio Stato di grazia, io l’ho letto nell’introduzione di Sergio Givone ai Dialoghi con Leucò. Pavese ha ragionato molto sul senso della prima volta, della stagione dell’infanzia, del mito e della poesia. E quando ripensavo alle sensazioni che volevo mettere in questo racconto, mi è tornato in mente e sono andato a riprenderlo. Rileggendo quell’introduzione che spiega i Dialoghi molto torna, soprattutto se lo associo al terremoto e al trauma che significa.
In quel primo giorno e mezzo di cammino non avevo avuto la sensazione di attraversare zone terremotate: le case e i palazzi incontrati, a un sguardo superficiale, potevano essere semplicemente abbandonati o diroccati. Verso l’ora di pranzo mi fermai per una lunga pausa scoprendo l’esistenza della ruzzola; nel frattempo avevo incuriosito un paio di signori che mi raccontarono di Camerino e di come avesse appena riaperto un pezzo del suo centro storico a distanza di tre anni dalle scosse.
Dal tardo pomeriggio, dopo una salita del 18% che speravo finale, ho iniziato a rendermi realmente conto di dove fossi. Il centro di Camerino — e l’area camper appena riaperta dai volontari della Pro Loco dove avevo intenzione di mettere la tenda — era ancora distante e in salita, ma mi fermai appena vidi le casette.

Tutta l’area era piena e soprattutto, imparai a mie spese, era ancora fuori dalla cittadina. Saliva la rabbia della stanchezza e il mio interno coscia bruciava dallo sfregamento sudato di tutto il giorno. Arrivai alla farmacia che era un altro luogo particolare della città: il primo avamposto della nuova piazza con tutti i negozi e servizi che una volta stavano nel centro storico. Avevano messo gli abitanti a valle e i servizi a monte, subito sotto alla parte chiusa in pratica. Senza un mezzo di trasporto come si faceva nella quotidianità?
Alla farmacista chiesi qualcosa per l’irritazione. “— Quant’è? — chiesi, e la pagai. Le lasciai un nikel di mancia, presi il resto e me ne andai”. Continuai a salire e sull’ennesima pendenza passai la Facoltà di Informatica, girai a destra seguendo le indicazioni di un parcheggio coperto e finalmente arrivai. L’area comprendeva un parcheggio sotterraneo chiuso per ragioni di sicurezza, una casetta di legno della Pro Loco, i bagni, un’area verde con due tavolini di legno da picnic. Nell’ordine montai la tenda, mi feci una doccia vestito lavando anche maglietta e pantaloncini, mi guardai intorno e vidi il terremoto in faccia.

Aveva la forma di un morso di squalo che aveva provocato una voragine verticale enorme su un palazzo, lasciando tutto il resto intatto. Cercai con lo sguardo altri segni, ma non ricordo se ne vidi, c’erano le gru e tante reti arancioni. Pensai alla cena. Non avevo intenzione di muovermi ulteriormente da dov’ero, le gambe pulsavano, presi quindi il telefono e cercai qualcosa di aperto. Ricordo la gioia di aver avuto quella pensata, ma per la prima volta, mentre aspettavo che una voce rispondesse, collegai il morso nella parete alle persone e alle loro vite. Chissà com’era stare nelle casette fuori dalla città, sotto quel sole che io pativo camminando.
Tappa 03: Camerino – Polverina – Fabriano – Ancona – Torino
Come il mattino precedente impiegai troppo tempo per rifare lo zaino. Soprattutto desideravo lasciare un’offerta nella casetta di legno, ma non sapevo come e anche questo mi fece innervosire perché persi altri minuti freschi da usare per camminare. Uscire da Camerino mi portò via ancor più tempo perché non capivo in che direzione andare. Feci due rapidi conti, guardai più volte l’ora e la guida in modo frenetico: per recuperare tempo — soprattutto per togliermi dalla statale — provai a fare l’autostop.
È immorale durante un cammino? Ci saranno i walking-nazi che scriveranno commenti osceni e insulti sui miei profili social per questo? Un signore molto gentile mi accompagnò fino all’imbocco del sentiero a San Luca, una frazione più in basso rispetto a Camerino. Dalla chiesa poco fuori le quattro case della frazione il paesaggio cambiò. Probabilmente mi stavo addentrando nel cratere e ogni edificio che vedevo era un superstite del terremoto.
“Superiamo la traversa sulla destra, quindi al bivio svoltiamo a sinistra, seguendo la pista che scende tra gli alberi e ci conduce fino a un cancello e a una casa lesionata dal terremoto.”
Riprendo questo passaggio della guida perché è stato per me importante. Quando pensai, arrivato lì, alla parola “lesionata” per indicare quella casa, mi venne lo sconforto: personalmente non avrei definito lesionata una casa la cui scala d’accesso esterna è crollata sul tetto del garage e che ha una cucina e forse qualche altra stanza “a vista” perché le manca la parete esterna, cioè il muro laterale. Ci rimasi male, se quella era lesionata, cos’era distrutta?
Mentre guardavo, si avvicinarono due signori, uno anziano e l’altro più giovane, padre e figlio, proprietari della casa. Notai un rassegnato disappunto per la mia presenza e misi via la macchina fotografica. Salutai, spiegai del sentiero, loro annuirono. Quando dissi che ero di Torino, il figlio rispose di averci fatto il militare, esperienza comune per i marchigiani, ho scoperto. Mi raccontarono della casa, dei progetti di ricostruzione che non partivano e poi mi lasciarono proseguire.
A fianco di un parco fotovoltaico scesi un sentiero fino al lago di Polverina, proseguendo su una strada asfaltata fino al paese. Lì mi fermai per il pranzo, all’ombra di un noce. Rimasi sdraiato per le ore più calde in attesa, poi arrivò la telefonata che aspettavo e le brutte notizie da casa: decisi di organizzarmi per tornare a Torino. Tornai al bar per chiedere informazioni sui mezzi più efficienti per andare a Roma o Ancona o non so quale altro posto più comodo: i pullman sarebbero passati l’indomani. Ancora una volta l’autostop fu la salvezza.
Il ritorno a Fabriano mi è stato gentilmente offerto da: un signore che trasportava macerie, sì, ancora quelle del terremoto a distanza di tre anni; un impiegato comunale di Ussita, anche lui militare a Torino diversi anni fa; un ragazzo che decise di portarmi apposta alla stazione di Fabriano solo per premiare il mio coraggio di autostoppista. Ripresi il regionale che porta ad Ancona e che per un lungo tratto costeggia il mare e mi resi conto che praticamente in meno di mezza giornata avevo ripercorso all’indietro quanto camminato in due giorni e mezzo.
Il notturno del mare da Lecce verso Torino non sarebbe arrivato prima delle due di notte, così presi un pullman fino al Monumento ai Caduti e scesi in spiaggia. Era buio, c’era poca gente e un vento caldo mi spinse a fare il bagno, poi con la testa appoggiata allo zaino mi addormentai. Quattro ragazzi senza chitarra o pianoforte sulla spalla mi svegliarono con le loro chiacchiere e risate, intorno all’una mi tirai su e chiamai un taxi perché i pullman non passavano più. Mi dissero che mi avrebbero portato loro se mi andava. Riattaccai, chiesi spiegazioni, ci accordammo sull’orario e richiamai il servizio taxi per disdire. Li ringraziai e uno di loro, ex scout, mi accompagnò alla stazione in tempo.
Il viaggio da Ancona non lo ricordo, presi un scomparto vuoto, avvicinai i sedili e crollai fino a Torino. Il terremoto del 2016 è stato l’ultimo delitto in ordine cronologico, il più violento e accelerante, che ha strappato in tanti pezzi una comunità che il Cammino punta a riunire come fosse una cicatrice.
I tanti edifici e paesi vuoti tenuti in piedi da putrelle e tiranti, mi hanno portato a pensare che il Cammino delle Terre Mutate sia l’esatta metafora di quelle case, chiese, scuole, vie, saliscendi, paesaggi, sostenuti a quel modo. Qualcosa di estremamente forte, saldo e stretto, che consente il passaggio e la visione fugace, capace in qualche modo di mantenere l’esistente così com’è, cristallizzato, in una natura diventata più spaventosa. Sarebbe quindi molto affascinante promuovere il cammino come soluzione ai problemi di un territorio in crisi profonda, ma sarebbe profondamente sbagliato sovraccaricarlo di significati esagerati.
Come sarebbe un errore appesantire quelle strutture provvisorie ed emergenziali di sostegno agli edifici visti nel tragitto. Sappiamo che la presa troppo stretta prima o poi si allenta, la tensione stressa le parti più deboli e la mancanza di autonomia a lungo andare crea malsana dipendenza. Senza contare poi la capacità della natura di ritornare selvaggia, riprendendosi il proprio spazio nel vuoto lasciato dalle persone. Si infila negli interstizi, cresce nelle pieghe e insieme al tempo allarga le crepe a X, quelle che stabiliscono la fine strutturale di un fabbricato e l’inizio del burocratico infinito necessario alla sua demolizione.
Per grande merito di chi lo ha pensato e sviluppato, il Cammino ha tentato di salvare il salvabile, ha riunito dal basso, messo in sicurezza e dato identità a chi è riuscito a rimanere in condizioni abbastanza accettabili da reagire. Ma le cicatrici si devono riassorbire perché i tessuti riprendano le loro funzionalità.