Diari
01 Dic 2025

Gli occhi di Siria sulla Sardegna: il suo Cammino Minerario di Santa Barbara tra miniere e mare

In questo nuovo diario, Siria, una nuova camminatrice della nostra community ci racconta con entusiasmo la sua esperienza lungo il Cammino Minerario di Santa Barbara, in Sardegna. Lei ha percorso 6 tappe, da Iglesias ad Arbus, ma ce ne racconta solo 4, ovvero quelle che le sono rimaste più impresse “Ogni passo è stato una scoperta, ogni sguardo un ricordo da portare con me” – da queste parole ci racconta non solo di un cammino fisico ma anche spirituale. Siria ci accompagna dentro paesaggi fatti di gallerie dismesse, mare e vento lungo costa e tracce di un passato legato al lavoro in miniera. Il suo blog raccoglie le sue impressioni di cammino, gli incontri lungo la strada, le emozioni della fatica e della scoperta, ma anche le riflessioni sulla storia e sull’identità di questo territorio unico. Attraverso gli occhi di Siria, il Cammino Minerario di Santa Barbara diventa un modo per conoscere meglio la Sardegna, la sua memoria e i suoi paesaggi, camminando.

In collaborazione con la Fondazione Cammino Minerario di Santa Barbara

Introduzione

Ho deciso di intraprendere il Cammino Minerario di Santa Barbara perché sentivo il bisogno profondo di fare qualcosa per me stessa, da sola. Un gesto d’amore verso di me, un passo concreto per tornare a respirare davvero. Desideravo un’esperienza che mi appassionasse, che mi mettesse in contatto con la natura della Sardegna, la terra che amo più di ogni altra e che sento parte di me, radicata nel sangue e nell’anima.

Questo viaggio non era soltanto un percorso fisico: volevo che fosse un cammino spirituale, un modo per guardarmi dentro, scoprire meglio chi sono, quanto posso resistere e quanto posso credere in me stessa. Speravo che la solitudine e il silenzio dei sentieri mi aiutassero a conoscermi di più, a capire le mie capacità, la mia forza, e anche i miei limiti.

E così è stato. In questi giorni ho imparato tanto: a fidarmi di me, a comprendermi, a rallentare, a trovare pace anche nella fatica. Mi porto a casa un bagaglio pieno di emozioni, ricordi, incontri e piccole rivelazioni. Ho intrapreso questo cammino anche per riflettere su quale direzione dare alla mia vita.

Sono una persona che cambia idea spesso, che sente e pensa tanto, e avevo bisogno di un tempo tutto mio per mettere ordine tra cuore e mente, per capire davvero cosa desidero e dove voglio andare. Questo diario racconta i miei sette giorni di viaggio, tra miniere, mare, tramonti, incontri e silenzi. Ogni passo è stato una scoperta, ogni sguardo un ricordo da portare con me.

Ma sapevi che, se sei una ragazza, puoi pernottare praticamente gratis lungo questo cammino? Abbiamo scritto un articolo che spiega l’iniziativa Leg’s Go in Cammino Women Edition qui.

Giorno 01: Iglesias – Nebida

26 km

Sono partita questa mattina alle 8:30 dall’Eurohotel di Iglesias, un hotel molto bello e raffinato, che accoglie i pellegrini e offre loro uno spazio confortevole per passare la notte. Nella mia stanza ho conosciuto Shannon, una donna americana della California. È alta, molto magra e forte: una compagna di viaggio davvero sorprendente. Lei aveva già iniziato il suo cammino e così abbiamo deciso di condividere insieme questa tappa.

La partenza da Iglesias

Il cammino si è rivelato duro: venti e passa chilometri da Iglesias fino a Nebida. Lungo la strada abbiamo attraversato la miniera di Monteponi, enorme e silenziosa, con i suoi resti imponenti. La miniera è stata chiusa negli anni novanta, e intorno sorgeva un villaggio abitato dalle famiglie dei minatori: uomini, donne e bambini che condividevano una vita dura, spesso contribuendo tutti al lavoro nelle miniere. Oggi restano solo ruderi e frammenti di quel passato, memorie sospese nel tempo.

Il sole splendeva alto nel cielo, limpido e senza nuvole. Faceva caldo, e proprio per questo le folate di vento che a tratti arrivavano sembravano un dono prezioso. La prima ora di cammino è volata. Io e Shannon parlavamo molto, per conoscerci meglio, immerse nella natura sarda. Intorno a noi arbusti e piante di ogni tipo, e a volte riuscivo a dirle il nome e l’uso dei frutti. Le ho fatto scoprire le bacche di mirto e, quando ci siamo imbattute in un corbezzolo, le ho offerto un frutto da assaggiare. Lei lo ha gustato sorridendo: “È dolce… io amo i dolci, sono golosa.” Abbiamo incontrato molti altri alberi di corbezzolo lungo la strada, ma i frutti non erano ancora maturi. Abbiamo visto anche piante di fico ma loro purtroppo senza frutti.

A un certo punto abbiamo notato delle impronte di cinghiale: per fortuna solo segni a terra e non la loro presenza reale. Verso mezzogiorno ci siamo messe a cercare disperatamente un posto all’ombra per pranzare. Il sentiero era troppo esposto, ma alla fine ho ceduto a Shannon un po’ di ombra mentre io, da freddolosa quale sono, mi sono sdraiata al sole. Avevamo poco cibo negli zaini, ma quanto bastava per darci energia. Ci siamo buttate a terra lungo la strada, con una felpa sotto al sedere per avere un minimo di comodità, ci siamo tolte le scarpe e abbiamo pranzato in silenzio, godendoci il relax.

Avevamo già percorso metà dei chilometri. Le salite erano state dure e Shannon si rivelava sempre più una donna forte: a volte faticavo a starle dietro. Lo zaino non mi dava più problemi, ma il dolore sì: due vesciche al tallone sinistro, gambe indolenzite e soprattutto le natiche che sentivano il peso continuo del carico. Cominciavo a pentirmi di essermi portata dietro troppe cose, in particolare il beauty, che mi sembrava il peso più inutile.

C’erano momenti in cui il dolore e la fatica mi chiudevano nel silenzio, e i pensieri negativi iniziavano a rallentarmi. Ma appena me ne accorgevo, cercavo di trasformarli in forza: “Dai Siria, ce la puoi fare.” Oggi ho imparato proprio questo: che come nella vita, la negatività rallenta e ostacola il cammino, mentre la positività ti fa andare avanti e progredire.

Finalmente, in lontananza, è apparso il Pan di Zucchero. Poi Nebida. E infine la Posada pronta ad accoglierci: la famosa vecchia casa del maresciallo e caserma dei Carabinieri. Con conservata al suo interno la stanza per i detenuti. Ad aprirci la porta c’era Sabrina, una donna dal fare militaresco ma simpatica. All’arrivo abbiamo ritrovato altre donne, le stesse con cui Shannon aveva camminato il giorno precedente: quattro amiche da Verona, energiche e simpatiche. Si è creato subito un bel gruppo, e insieme (sotto consiglio di Sabrina) abbiamo deciso di fare un pezzo del percorso dell’indomani già quella sera, al tramonto, per goderci il panorama.

Ero stanca e avrei voluto riposare, ma non si può dire di no a una camminata senza il peso dello zaino con un aperitivo al tramonto, davanti alla Lavandaia e al Pan di Zucchero. Una volta arrivate, abbiamo capito perché Sabrina ci aveva consigliato di affrontare quel tratto di percorso il pomeriggio stesso e senza zaino. Un suggerimento che darei anch’io a chiunque, visto il sentiero stretto e a picco sul mare: il peso dello zaino mi avrebbe sicuramente sbilanciata, rischiando poi di cadere.  

Il cielo non ci ha regalato colori indimenticabili, ma il momento è stato comunque magico: sei donne diverse, ma in quell’istante tutte uguali. Una di noi ha tirato fuori un foglio scritto a mano e ha letto ad alta voce:

“La mia bellezza è anche la tua.

La mia energia è anche la tua.

La tua forza è anche la mia.

Siamo uguali. Mi comprendo. Ti comprendo senza giudicarti.

Ti ringrazio e offro gratitudine a te e a questo momento di condivisione.”

Un pensiero che ci ha commosse e unite, facendoci percepire le nostre energie e la nostra pace. Dopo un piccolo aperitivo, siamo andate tutte insieme a cena al ristorante. È stata una giornata lunga e faticosa, ma colma di incontri e momenti preziosi. Oggi porto con me gratitudine per tutto ciò che ho vissuto e per le persone che il cammino mi ha fatto incontrare. Domani si riparte verso Masua.

Tramonto a Masua

Giorno 03: Masua – Buggerru – passando per Cala Domestica

19 km

Sveglia presto all’ostello di Masua. La notte era stata quasi insonne, ma l’alba sul mare ha cancellato ogni dolore. Mi sono incamminata fino alla casa dove alloggiavano le altre quattro donne con cui ho condiviso il cammino, e siamo partite insieme. Per l’ultima volta.

Alba a Masua

Sapevamo che ci attendeva una tappa faticosa, ma non immaginavamo fosse anche così bella. Quelle donne mi trasmettevano un’energia incredibile: salivano veloci come razzi e io, arrancando, cercavo di stargli dietro. A un certo punto, vedendomi affaticata, una di loro mi porse con gentilezza il suo bastone da trekking. Mi aiutò davvero. Le salite erano dure, ma bastava girarsi verso il mare per sentire che tutto era ripagato. Purtroppo oggi le vesciche hanno fatto visita anche al piede destro, e la partenza è stata dolorosa. Ho cercato di concentrarmi più sul respiro che sul dolore. Decidemmo di prendere la variante del percorso: la scelta si rivelò una sorpresa meravigliosa.

È diventato subito il mio tratto preferito: panorami verdi, bosco, ovili, capre al pascolo, vista sul mare e spiagge nascoste. Quando abbiamo incontrato le capre libere, ero al settimo cielo. Sono tra i miei animali preferiti: mi guardavano con occhi curiosi e teneri, e io impazzivo dalla voglia di accarezzarle, ma non si lasciavano avvicinare. Dopo foto e video, abbiamo proseguito tra i profumi intensi della macchia mediterranea. Mi sono detta che se esistesse un profumo “Sardegna” lo comprerei subito: quell’odore autentico resterà per sempre nei miei ricordi.

La salita che ci aspettava dopo era ripidissima e rocciosa. Mi ricordava il monte di Medjugorje. Mi misero davanti al gruppo e, da sola mentre arrancavo, dal nulla iniziai a pregare. Non avevo più il rosario al collo, ma non importava: non contai le preghiere, andavano da sole, e più pregavo più sentivo forza, come se qualcuno mi spingesse da dietro. Pregai un po’ per me e un po’ per mia nonna.

Arrivata in cima, un altro regalo: un ovile pieno di capre. Le osservai a lungo, avrei potuto restare lì per ore. Poco dopo, all’orizzonte, apparve il mare. L’arrivo a Cala Domestica fu commovente. Urlavo di gioia, non vedevo l’ora di tuffarmi. Sulla spiaggia io e Barbara fummo subito fermate da due signori, curiosi del nostro cammino. Ci raccontarono la loro storia: erano tornati lì, un ritorno speciale. Sperai che anche per me un giorno Cala Domestica sia un ritorno.

Caletta in una grotta a Cala Domestica

Ci fermammo un’ora e mezza: pranzo, relax e bagno. Ricorderò per sempre quella piadina — pomodoro, salmone, avocado e Philadelphia — come la più buona della mia vita. Il mare era piatto, l’acqua cristallina, la spiaggia poco affollata. Di fronte a noi, solo una barca a vela, perfetta nello scenario. Sdraiata sul bagnasciuga osservavo una giovane coppia con due bambini che sembravano angeli. Li guardavo sorridendo, e mi scesero due lacrime. “Ho la lacrima facile oggi”, pensai. O forse ero semplicemente felice, e vedere la felicità mi commuoveva. Quel momento mi ha dato un’immagine chiara di ciò che un giorno vorrei anch’io: una famiglia felice.

Dopo il pranzo e il bagno andai a esplorare. Dietro Cala Domestica, oltre una galleria scavata nella roccia, si apriva un’altra caletta incantevole. Non potevo resistere, feci un altro bagno anche lì. Ogni angolo era uno stupore. La ripartenza per il cammino fu faticosa e un po’ malinconica: anche il sole e il mare sanno stancare. Ci restava un’ora e mezza fino a Buggerru. Lungo la strada io ed Enrica scoprimmo di essere nate lo stesso giorno e mese: una coincidenza rara che ci fece sorridere.

Le quattro veronesi, durante il cammino, mi hanno regalato mille attenzioni e piccole coccole. Persone fantastiche, premurose e allegre. Abbiamo riso, cantato, condiviso. Non potevo chiedere di meglio. Il cammino con loro terminò a Buggerru. Salutarle è stato un po’ triste: dopo tanti chilometri insieme, lasciare andare certe persone non è facile.

Tra Buggerru e Portixeddu

A me invece aspettava l’ostello Henry, dove ho ricevuto una bellissima accoglienza. Lì ho conosciuto Priscilla, una ragazza spagnola con cui condivido la stanza. Un nuovo incontro, un nuovo inizio, in questo cammino che sembra non smettere mai di sorprendermi.

Giorno 05: Portixeddu – Piscinas

17 km

Dopo una cena piuttosto misera la sera precedente, al risveglio mi sono ritrovata con una gran fame. A Casa Nemus ho dormito molto bene, così bene che sarei rimasta volentieri a letto ancora un po’. Ormai, però, mi sono abituata a fare le ore piccole, e anche oggi, uscita dalla porta di casa, pensavo di affrontare il cammino in solitudine. Invece, sorpresa: mi sono ritrovata in compagnia di tre ragazze di Torino.

Il proprietario di casa è stato così gentile da accompagnarci in macchina fino all’inizio del percorso. Ma io avevo bisogno di partire da sola, e così le ho salutate e mi sono incamminata. Dopo poco, lungo il cammino, ho ritrovato i siciliani del giorno prima: Beppe, Maddalena e Cinzia. Fino a quando mi sono accorta che loro stavano andando nella direzione sbagliata… e io con loro, come una babba. A quel punto loro hanno deciso di proseguire tagliando per rientrare sul percorso, mentre io ho preferito tornare indietro per ritrovare la strada giusta. In fondo, era anche un modo per restare sola.

Caletta Portixeddu

Ritrovato finalmente il sentiero, dopo qualche salita sono arrivate delle discese bellissime. Mi sono divertita a correrle: in quel momento lo zaino sembrava più leggero del solito, e mi sono tornate in mente le parole di un amico che mi aveva detto: “Dopo qualche giorno, lo zaino diventa parte di te, del tuo corpo.” Aveva ragione. È una questione di abitudine: le gambe diventano più forti, la schiena più stabile, il corpo si adatta a quel peso. A un certo punto ho persino pensato di aver dimenticato qualcosa, perché non mi spiegavo come mai lo sentissi così leggero, nonostante avessi con me i soliti litri d’acqua e un pranzo al sacco abbondante.

Lungo il percorso ho incontrato di nuovo le ragazze di Torino. Io avevo perso tempo per via della deviazione e loro, invece, mi avevano raggiunta. Le ho superate, ma poco dopo il GPS ha iniziato a fare i capricci e ho sbagliato strada per la seconda volta. In questa tappa il percorso era poco segnalato, e non era raro perdersi.

Il tratto prima di arrivare alla spiaggia era davvero bello, un panorama suggestivo e selvaggio, anche se piuttosto lungo. C’è stato un momento in cui mi sono resa conto di essere profondamente felice. Poco prima avevo incontrato un gregge di pecore al pascolo: la scena mi aveva riempito di gioia. Camminavo, ballavo, urlavo, inventavo canzoni. E ridevo da sola.

Poi, però, ho incontrato il mare e il sentiero costiero successivo… e lì ho pensato che sarei svenuta. Non immaginavo fosse così lungo. Camminare sulle dune, con il peso dello zaino che ti fa sprofondare nella sabbia, è una delle cose più faticose che abbia mai fatto. Non avrei mai pensato di rimpiangere le salite!

Avevo fatto colazione, ma la fame cominciava a farsi sentire. Non erano ancora le dodici, così ho deciso di resistere fino all’arrivo. Ma quando si è fatto oltre mezzogiorno, mi sono arresa: avevo bisogno di energia. Mi sono fermata all’ombra e ho mangiato una mela… talmente in fretta che ho inghiottito anche un pezzo di etichetta senza accorgermene.

Mentre mangiavo, ho visto arrivare la coppia di ragazzi di Milano. Mi hanno riconosciuta e hanno deciso di aspettarmi: da quel momento abbiamo camminato insieme per tutto il tratto di spiaggia. Circa sette chilometri interminabili, una distesa infinita di sabbia chiara e mare a perdita d’occhio. Camminare sulle dune è stato davvero estenuante — a ogni passo il piede sprofondava, e il peso dello zaino sembrava moltiplicarsi.

Quando finalmente abbiamo raggiunto la spiaggia di Piscinas, mi sono fermata a guardare il mare e all’improvviso mi sono riaffiorati i ricordi dell’infanzia. Ero stata qui da bambina, con i miei genitori e mio fratello, e rivedere quel paesaggio mi ha profondamente emozionata. C’è stato anche un momento in cui ho persino odiato il mare e la spiaggia. L’acqua nella sacca stava finendo, il sole mi batteva dritto in faccia, e la sabbia rifletteva il calore rendendo tutto ancora più pesante. Le vesciche cominciavano a farsi sentire: a volte riesco a ignorare il dolore, ma quando la stanchezza prende il sopravvento, ogni passo diventa una fitta.

Rocce nella spiagge di Piscinas

Quando finalmente siamo arrivati al chiosco sulla spiaggia, stremata, ci siamo seduti e, come premio immediato, abbiamo ordinato delle birre ghiacciate. Al tavolo accanto c’era un signore: si è avvicinato incuriosito, chiedendoci del percorso. Era friulano, in viaggio con il suo van camperizzato. Dopo qualche parola, ha notato le mie vesciche e mi ha offerto di aiutarmi: “Guarda, ho tutto l’occorrente per disinfettare. Se vuoi, porto qui il necessario o vieni con me, così facciamo una medicazione come si deve.”

Ho accettato, grata per quella gentilezza. La situazione non era delle migliori: la pelle era completamente aperta. Quando mi ha messo l’acqua ossigenata, ho trattenuto a stento un urlo. Era però l’unico modo per disinfettare bene e guarire il prima possibile. Sapevo che il giorno dopo mi aspettavano più di venti chilometri, e volevo arrivarci in buona forma. Una volta tornata dalla medicazione, il servizio transfer, ci avrebbe portati alla Posada di Pitzinurri, la struttura dove avremmo passato la notte.

Mentre aspettavamo, sono arrivati anche i tre siciliani che erano rimasti molto più indietro. Ci siamo salutati con affetto: avevano terminato il cammino e stavano tornando a Cagliari. È stato davvero bello incontrare persone così gentili e genuine. Durante il tragitto verso la Posada, il signore del transfer è stato così gentile da fermarsi in un punto panoramico minerario per raccontarci la storia del luogo. Arrivata alla struttura, finalmente ho potuto sistemarmi: una doccia rigenerante, un po’ di relax e, soprattutto, un bel lavaggio di vestiti.

Dopo aver pulito e sistemato tutto, ci siamo ritrovati tutti — le tre ragazze di Torino e la coppia di Milano — per la cena. Abbiamo deciso di cucinare insieme: pasta al sugo con tonno e piselli. Semplice, ma buonissima. Era da giorni che non mangiavo un vero piatto di pasta, dopo pranzi improvvisati a panini e snack. Ci voleva proprio.

Dopo cena, mentre mi godevo il tramonto, ho ripensato a quello che era successo al chiosco. Mi tornava in mente quel gesto così semplice e umano: un uomo sconosciuto che si è alzato, si è avvicinato e ha deciso di aiutarmi. Un atto raro, in un mondo dove si parla spesso di violenza, diffidenza e paura di avvicinarsi troppo.

Eppure, quando si viaggia e si incontra gente diversa, si scopre che là fuori esistono persone più aperte, più disposte a tenderti la mano. È lì che si vede il vero altruismo. Quando non hai nulla e scegli di condividere quel poco che hai — un cerotto, un pezzo di pane, una mela, o persino un sorso d’acqua. È il momento in cui smetti di pensare solo a te stessa e lasci spazio alla generosità.

Sono rimasta colpita da quanti piccoli gesti di bontà ho ricevuto in questo cammino. Cerco sempre di ricambiare a modo mio, e questo mi riempie il cuore. Stasera mi sento piena, felice, profondamente grata. Tornata dalla cena, avrei voluto fare ancora tante cose, ma stavolta la stanchezza ha preso il sopravvento.

E così, dopo una giornata faticosa ma ricca di incontri, ricordi, riflessioni e gratitudine, mi sono addormentata profondamente. Oggi ho imparato che la vera ricchezza del cammino è nelle persone che incontri, nei gesti gentili e nel cuore che si apre senza paura.

Giorno 06: Pitzinurri – Arbus (passando per Montevecchio e Guspini)

27 km

Sono partita ieri mattina dalla Posada di Pitzinurri alle otto e mezza. L’aria era fresca, il cielo limpido e il silenzio del mattino mi accompagnava. Subito, all’inizio del percorso, ho avuto la fortuna di vedere due daini attraversare il sentiero davanti a me. È stato un momento rapido ma magico, di quelli che ti restano addosso e ti ricordano quanto la natura sia viva intorno a te.

Posada Pitzinurri

Lungo il cammino ho incontrato diversi punti suggestivi: la chiesa di Santa Barbara, tante vecchie miniere e la cosiddetta Casa del Lord, appartenuta a un inglese che viveva qui tra Ottocento e Novecento. Da lì, il paesaggio cominciava a cambiare, lasciando spazio alla bellezza mineraria di Montevecchio, una delle tappe più affascinanti dal punto di vista storico e visivo. Le miniere qui erano tenute meglio rispetto a quelle viste nei giorni precedenti — probabilmente più recenti, databili al Novecento — e l’atmosfera era davvero suggestiva: silenziosa, sospesa, quasi sacra.

Miniera di Montevecchio

Insieme alla coppia di Milano abbiamo percorso anche il Sentiero delle Cernitrici, un tratto dedicato alle donne e alle bambine che, a inizio secolo, lavoravano nelle miniere selezionando a mano i minerali. Molte di loro persero la vita durante il crollo della miniera. Camminare su quel sentiero, sapendo che tra quelle rocce risuona ancora la memoria del loro sacrificio, è stato toccante. Ho sentito un profondo rispetto per quelle donne, per la loro forza e per il dolore che quelle terre ancora custodiscono.

A Montevecchio mi sono fermata per una breve pausa con la coppia di Milano. Abbiamo bevuto una birra insieme e scambiato due parole, poi loro hanno terminato lì il loro cammino e sono rientrati verso casa, a Milano. Io, invece, dovevo continuare verso Arbus, passando per Guspini.

Appena ripartita da Montevecchio, ho avuto modo di incontrare le miniere più grandi e spettacolari che avessi mai visto lungo il cammino. Erano tenute in ottime condizioni, tanto che venivano organizzate visite guidate. Il percorso da lì in avanti è stato piuttosto impegnativo, con molte salite e pochissime discese, e la stanchezza iniziava a farsi sentire. Non mi sono tolta gli scarponi né ho lasciato respirare i piedi, perché sapevo che fermarmi troppo mi avrebbe solo fatto peggiorare il dolore. Le vesciche bruciavano, ma dovevo continuare.

Arrivata a Guspini, ormai erano le due del pomeriggio e non avevo ancora mangiato. Mi sono concessa solo una pausa veloce con una barretta. La fatica, a volte, mi chiude lo stomaco e mi fa venire nausea. L’unica cosa che mi salva sempre è l’acqua — ho imparato a razionarla bene, anche se la paura di restare senza mi accompagna in ogni tappa.

Quando ho superato i venti chilometri e stavo per entrare nella zona di Arbus, ho iniziato a parlare da sola. Era un modo per alleggerire la mente, per non lasciarmi inghiottire dai pensieri. Dopo giorni trascorsi a chiacchierare con altre persone, trovarmi da sola così a lungo è stato strano. I pensieri correvano veloci: riflettevo su cosa farò quando questo cammino sarà finito, su cosa voglio davvero nel mio futuro, su che direzione prendere nella mia vita.

Non so se sia un bene o un male, ma penso troppo. È una mia caratteristica, quella di analizzare tutto, fino allo sfinimento. A volte mi fa male, perché il troppo pensare diventa una forma di stanchezza mentale. Quando succede, mi accorgo che parlare con qualcuno, anche solo per pochi minuti, mi aiuta a tornare leggera.

A un certo punto, però, la stanchezza fisica ha preso il sopravvento: mi sentivo stremata, svuotata. Forse avevo fatto troppo poche pause, o forse il mio corpo mi stava solo chiedendo di fermarmi. Ma sapevo che ogni volta che mi sedevo, ripartire era peggio: il dolore si moltiplicava. Arrivata quasi ad Arbus, ho guardato la collina davanti a me e ho capito che non ce l’avrei fatta a fare le ultime salite. Era già tardo pomeriggio e tutto ciò che desideravo era una doccia e un letto. Così ho deciso di fermarmi.

Quel giorno ho imparato che non si tratta solo di resistere, ma anche di ascoltare se stessi, di sapere quando è il momento di rallentare. A volte la vera forza non è continuare a tutti i costi, ma riconoscere i propri limiti e accarezzarli con dolcezza. Appena arrivata al B&B di Arbus, trovai il proprietario ad accogliermi.

Chiesi se ci fosse dell’acqua potabile, ma non ce n’era. Era già tardi e avevo i tempi stretti: dovevo fare la doccia e uscire in fretta per andare al supermercato a comprare il necessario. Mentre camminavo per le vie del paese, sentii una musica provenire da un vicolo: erano voci di persone che cantavano al karaoke, e anche piuttosto male. Mi scappò da ridere. Mi avvicinai e vidi che probabilmente era una festa di compleanno: avevano perfino sbarrato la strada con dei nastri verdi e appeso palloncini verdi ovunque. Ma io dovevo passare proprio di lì.

Al ritorno, percorrendo la discesa con le buste della spesa in mano, le persone mi notarono e cominciarono a chiamarmi per coinvolgermi. “Vieni a cantare con noi!” mi dissero. Io sono timida, un po’ diffidente, e so anche di essere stonata, ma quando mi offrirono un bicchiere di vino non seppi dire di no. Mi avrebbe sicuramente aiutata a sciogliermi un po’. Dopo poco, mi arrivò in mano anche una fetta di torta, e in men che non si dica ero lì, a cantare insieme a loro. Era un momento leggero, divertente, pieno di calore umano. Quando mi chiesero di scegliere una canzone, non ebbi dubbi: “Spunta la luna dal monte.” Una delle mie preferite.

Cantata in Sardegna, con dei sardi, aveva tutto un altro sapore. Loro sono stati così gentili da offrirmi tutto, e volevano persino che mi fermassi a cena, ma per me era troppo. Mentre andavo via, un signore del gruppo mi fermò e iniziò a farmi mille domande — i sardi sono curiosi quando arriva un “foresto” in paese. In luoghi così piccoli, una faccia nuova è un evento.

Quel signore aveva al collo un fazzoletto verde, come molti degli altri, e i calici dei festeggianti erano decorati con nastri verdi. Curiosa, gli chiesi il perché di tutto quel verde — i palloncini, i nastri, i fazzoletti. Mi spiegò che quel colore rappresentava il loro pezzo di quartiere, perché ogni rione del paese ha il proprio colore. Mi sembrò una tradizione bellissima, piena di senso di appartenenza e comunità.

Prima che potessi salutarli, quell’uomo mi fece un regalo inaspettato: mi mise al collo il suo porta-calice, con dentro un calice decorato e inciso con scritte in sardo. “Questo è tuo,” mi disse. Io rimasi spiazzata, e pensai tra me e me: “E adesso dove me lo metto?”

Provai a rifiutare, anche se il gesto mi aveva toccata, ma lui insistette con un sorriso gentile. Così tornai al B&B con la spesa in mano e un calice al collo, ridendo da sola per quella scena surreale. Quella sera, mentre mi sdraiavo, pensai a quanto fossi felice e grata. Ogni giorno di questo cammino mi stava regalando qualcosa di diverso: affetto, aiuto, sostegno, gentilezza. Mi sentivo piena, davvero piena, come se tutte le persone incontrate mi avessero lasciato un pezzetto di luce.

Articolo di
Siria Soddu

Actress
Wine lover
Founder of @siriama_