David Le Breton: camminare per resistere, per capire, per ritrovare il mondo. E per vivere.
Antropologo, sociologo e autore francese, David Le Breton (1953) ha dedicato gran parte della sua carriera allo studio del corpo, del dolore, del silenzio, del dialogo… e del camminare. Le sue riflessioni su quest’ultimo argomento, raccolte in tre libri pubblicati nell’arco di oltre vent’anni – Il mondo a piedi. Elogio della marcia (Éloge de la marche, 2000), Marcher: Éloge des chemins et de la lenteur 2012) e Marcher la vie : Un art tranquille du bonheur (2020) – hanno trasformato un gesto quotidiano in un’esperienza filosofica e sociale, capace di restituire dignità al corpo, alla lentezza, alla semplicità, alla natura, all’altro, in un mondo dominato dalla performance, dal consumo e dalla volontà di superare i limiti umani.
Che si tratti di cammini o di passeggiate urbane, Le Breton ci racconta in questa intervista come il camminare non sia una moda passeggera, ma una tendenza profonda, capace di rivelare la dimensione più autentica della vita e dell’essere umano, oltre che un modo di praticare la resistenza, di affermare la propria identità, ritrovare la capacità di dialogare con l’altro e prendersi cura di lui e di sé.
Come nasce il rapporto di Le Breton con il camminare
Professor Le Breton, cosa l’ha portata a interessarsi così profondamente al tema del camminare?
Mi sono interessato al tema innanzitutto perché sono un camminatore, e poi perché il mio lavoro si concentra sull’antropologia del corpo, in maniera allargata. Ho scritto molti libri, ma il mio lavoro è essenzialmente un’esplorazione antropologica del rapporto che intratteniamo, in quanto persone, dal punto di vista fisico, sensoriale, affettivo, con il mondo che abitiamo. Dopo il mio primo libro sul tema, Il mondo a piedi. Elogio della marcia, ne ho scritto un altro intitolato L’Adieu au corps (ndr. L’addio al corpo), che in Italia non è stato tradotto, ma in cui compio un’analisi antropologica sul “transumanesimo”, teoria di quegli scienziati americani che considerano il corpo obsoleto, che vedono in esso il luogo di ogni sventura mondana, perché è a causa di esso chee ci stanchiamo, ci ammaliamo, invecchiamo e che, un giorno, moriremo.
Ho analizzato le ideologie che disprezzano il corpo e devo dire che ero stanco di leggere le interviste o i testi di questi uomini — non ci sono donne, il che è del tutto logico, del tutto antropologico, verrebbe da dire! Uomini ultra-puritani, che consideravano per esempio che fare l’amore fosse una perdita di tempo, o mangiare… perché mangiare, quando si potrebbero fare delle iniezioni di vitamine, di calorie, e così via? Ho sentito la voglia e il bisogno di ritrovare la gioia di esistere, scrivendo e rileggendo i grandi libri dedicati al camminare, come quello di Robert Louis Stevenson, o altri. Volevo passare, insomma, da questo disprezzo alla felicità, al godimento, al piacere di esistere che provo in quanto camminatore. È nato così il mio primo libro Elogio della marcia, che ha incontrato moltissimi lettori, dandomi il desiderio di continuare negli anni successivi.
Lei cammina ogni giorno?
Cammino! A Strasburgo mi sposto pedalando – ho anche scritto un piccolo libro sulla bicicletta che è stato tradotto anche in italiano (ndr. A ruota libera. Antropologia sentimentale della bicicletta), ma cammino molto, quasi tutti i giorni – non utilizzo quasi mai l’automobile. E poi spesso, nel fine settimana, io e la mia compagna andiamo a camminare sui Vosgi, sulle piccole montagne che distano 60-70 km da Strasburgo. E quando sono in viaggio o vado a tenere una conferenza da qualche parte cammino moltissimo. Sono da poco stato a Venezia: credo di aver camminato per la città almeno per cinque o sei ore al giorno. Certo, sono camminate urbane, ma anche queste sono estremamente piacevoli, soprattutto in città magnifiche come Venezia, Roma, Milano, Napoli.
Ricorda la prima volta che ha capito il valore del camminare?
Le prime volte in cui ho camminato davvero a lungo ero adolescente, all’epoca facevo molto autostop in Europa. E mi ubriacavo di cammino perché stavo molto, molto male con me stesso. Camminare era senza dubbio un modo per scomparire, per non interrogarmi più su cosa avrei fatto di me, della mia vita, perché stavo davvero male. Credo che i momenti in cui ho camminato davvero con gioia siano arrivati più tardi. Probabilmente quando sono arrivato a Strasburgo e, insieme alla mia compagna, abbiamo cominciato a fare lunghe camminate nei Vosgi o altrove. Lì, per la prima volta, avevo un riconoscimento sociale grazie all’università. Avevo già scritto, probabilmente, qualche libro; sicuramente avevo pubblicato molti articoli.
In un certo senso, attraverso il cammino mi sono riconciliato con la contingenza del mondo, grazie alla disponibilità, alla pace, a una sensorialità felice e a un’affettività serena che si provano quando si ha del tempo per sé e si ritrova il proprio respiro per qualche ora o qualche giorno. Erano anche momenti di scoperta: della natura, degli animali, degli alberi, del silenzio, per ritrovarlo. Ho scritto anche un libro sul silenzio (ndr. Sul silenzio: fuggire dal rumore del mondo, 2018). Il silenzio, per me, è qualcosa di molto importante, perché nelle nostre città viviamo nel rumore continuo, nella musica obbligatoria nei ristoranti, nei bar o altrove. Camminare significa davvero ritrovare il silenzio, la bellezza del mondo, il canto degli uccelli, il vento tra gli alberi. Avviene qualcosa come un “ritorno al mondo”.

I suoi libri sul camminare, scritti dal 2000 al 2020
Ha scritto tre libri sul tema. Che cosa ha capito nel corso degli anni? E perché è tornato più volte su questo tema?
Non esisteva neanche un libro come il primo che ho scritto: c’erano molti racconti di cammino, scritti da uomini o donne come Alexandra David-Néel, per esempio, che descrivevano itinerari e percorsi. Io invece ho voluto fare una sorta di antropologia flâneur, tranquilla, pacata: non un’antropologia nel senso classico del termine, e ancor meno una sociologia, perché non c’erano cifre o statistiche. Non era il mio intento: volevo parlarne in modo molto esistenziale. Rispondere alla domanda “Perché amiamo camminare?” Ecco. Il primo libro dunque è stato un po’ un esperimento ed è stata una gioia camminare in compagnia di altri scrittori che raccontavano le loro passeggiate: il libro è scritto come se fossi in dialogo con loro. Immaginavo di camminare con Stevenson o con Bashō, o con Jacques Lacarrière. “Dove andiamo a mangiare? Dove dormiamo stanotte?” E Stevenson diceva: “Ah, io ho dormito in quel posto, è stato terribile…”.
Il secondo libro, Camminare. Elogio del passo e della lentezza, insisteva di più sul fatto che il cammino sia una forma di resistenza politica e sociale, un modo di ritrovare il corpo, il senso, la disponibilità, la lentezza, un’umanità che tende a scomparire nelle nostre società iperattive e che distruggono la natura. E il terzo libro, La vita a piedi, era più centrato sull’idea che camminare sia una forma di guarigione. Non c’è solo questo, ovviamente, né in quel libro né negli altri; ma era il punto di partenza. Ho incontrato tantissimi camminatori che, alla fine del loro cammino, avevano ritrovato il gusto di vivere, che si erano curati da un certo numero di sofferenze… E ho voluto parlare anche di questo.
Ho voluto parlare inoltre dell’invecchiamento dei camminatori. Perché è evidente che tutti i camminatori, prima o poi, diventano uomini o donne più anziani. E le più entusiaste sono le persone in pensione, perché i giovani non hanno molto tempo per andare a Santiago de Compostela o altrove, mentre i pensionati hanno molto tempo davanti a sé. Ma cosa succede quando si hanno 70, 80 anni e si fa sempre più fatica a camminare? Nicolas Bouvier e Pierre Sansot per esempio raccontano il loro dolore e la loro sofferenza nel fare sempre più fatica a camminare. Ecco, questi sono gli assi che strutturano i miei tre libri sul tema.
C’è qualcosa che vorrebbe ancora raccontare?
Forse sarà una riflessione più civica, legata all’idea di resistenza. Mi piacerebbe scrivere sul paesaggio, anche se ne parlo già ne La vita a piedi, per come lo vedono ad esempio le popolazioni amerindie: per loro è vivo, lo sono le rocce, gli alberi, i luoghi che ci accolgono. Credo che i camminatori siano animisti, in un certo senso politeisti, perché in fondo vedono gli “dei” un po’ ovunque. È ciò che chiamo il genio, lo spirito dei luoghi, che sono molto diversi l’uno dall’altro, come se ciascuno portasse in sé una cosmologia particolare. Ho scritto vari articoli su questo tema, ma potrei tornarci in maniera più approfondita.
Il valore del camminare nel mondo contemporaneo
In un mondo, appunto, dominato dalla tecnologia e dal tentativo di superare il corpo, di metterlo da parte; in un mondo in cui vogliamo soprattutto essere efficienti… il camminare è un antidoto e una cura, oppure è un’alternativa?
Il camminatore non è alla ricerca di efficienza o di rendimento. Ha semplicemente qualche ora davanti a sé quel giorno, oppure una settimana libera, e prende lo zaino per godersi quel momento. Non guadagnerà un centesimo camminando, perché non c’è alcuna dimensione economica nella marcia. È una passione dell’inutile – ma come tutte le cose più belle della vita: l’amicizia, l’amore, mangiare un piatto meraviglioso invece che uno ordinario. Penso che sia proprio questa l’essenza stessa delle nostre vite: queste piccole passioni, quasi minuscole, che fanno sì che amiamo la vita, ma che sono totalmente controcorrente rispetto al mondo di oggi, dove tutto deve essere utile e redditizio. Camminare, invece, non lo è.
Mi chiedo se si tratti di un antidoto o di un’alternativa, perché per me, per esempio, è un antidoto. Lavoro davanti a uno schermo tutti i giorni ed è un antidoto nel tempo libero che ho a disposizione. Ma penso anche che possa essere un’alternativa, perché ho incontrato in cammino persone che hanno lasciato la loro vita “precedente” e hanno iniziato a spostarsi camminando, o a vivere accogliendo chi cammina, per esempio. E in questo caso non diventa una cura, ma una vera e propria alternativa. Dunque, per me, ha un doppio valore, a seconda di come si può abbracciare.
Sì, penso lei abbia ragione: non bisogna opporre necessariamente l’antidoto all’alternativa. Credo che ci sia un intreccio di queste due dimensioni: camminare ci permette di curare le difficoltà che abbiamo come lavoratori urbani, ecc., e allo stesso tempo è un’alternativa perché il camminare è un ritorno alla vita semplice, alla vita lontana dal superfluo, perché camminiamo con il nostro corpo, senza alcuna protesi tecnologica per andare più veloci o altro. Camminando ritroviamo la dimensione elementare degli esseri umani di milioni di anni fa, dei primi uomini che si sono raddrizzati e hanno cominciato a camminare nelle foreste, nella savana. Camminare è un ritorno a una vita semplice ed è quindi un’alternativa politica, nel contesto attuale. Ma è anche un antidoto: quando si è lavorato tutto il giorno, per esempio, camminare rende felici: permette di ritrovare il proprio respiro, di tornare disponibili al mondo che ci circonda, pur camminando in città, se non si ha scelta. E allo stesso tempo si può partire nel fine settimana verso luoghi più adatti, come i boschi, il mare, la montagna, dove l’effetto sarà molto più forte perché si passeranno uno, due, tre giorni a camminare e basta.

Camminare: una coscienza e una pratica sempre più popolare
Aumentano i cammini in tutta Europa, aumentano i camminatori: secondo lei sta anche aumentando la coscienza del camminare?
Il cammino ha davvero cominciato a diffondersi alla fine degli anni ’90 e all’inizio degli anni Duemila. Abbiamo visto i sentieri popolarsi sempre di più. Sui Cammini di Santiago di Compostela nel Duemila c’erano intorno alle 100-200mila persone; oggi sono 600mila i pellegrini che li percorrono annualmente, e arrivano da tutto il mondo. Non è quindi solo un fenomeno sociale che riguarda le nostre società europee, ma un fenomeno veramente globale: ci sono cinesi, giapponesi, colombiani, brasiliani, persone di tutte le religioni, di tutte le età. Persone molto anziane che camminano lentamente e giovani che camminano velocemente. Mi piace pensare che i camminatori siano uomini e donne pionieri di un mondo futuro, un mondo in cui sarebbe possibile comprendersi nonostante le religioni, le lingue, le età; una sorta di comunità, relativamente “fraternale”, in un certo senso francescana per il loro amore per la natura e per gli animali.
Il grande successo del camminare è anche una forma di alternativa politica: penso che gli uomini e le donne che camminano siano un po’ stanchi di questi imperativi di rendimento, di corsa, di denaro. Chi cammina verso Santiago di Compostela per diverse settimane – a volte di più – vive davvero in modo molto povero: hanno appena uno zaino, non scelgono grandi hotel di lusso, ma strutture semplici, a volte dormono all’aperto, mangiano in piccoli ristoranti popolari. Oggi c’è un entusiasmo globale per il ritorno a una vita “semplice” e felice, perché non è una vita imposta. Quando si è poveri, non si ha scelta: si è costretti, si fatica a mangiare, a dormire. Ma i camminatori, no: hanno i mezzi per vivere pienamente nelle loro case, o magari andare in buoni hotel, preferiscono questa “povertà felice”. Ovviamente è una libera scelta, i camminatori non sono rifugiati o senzatetto che si trovano a camminare per necessità e per sofferenza, personale e sociale.
In un certo senso sta diventando di moda – e ben venga, rispetto a tante altre cose!, ma c’è il pericolo che anche camminare si avvicini a una logica di performance?
Certo, il consumismo si è appropriato di questo enorme mercato di centinaia di milioni di camminatori in tutto il mondo che hanno bisogno di attrezzatura: buone scarpe, abbigliamento adatto, zaini, ecc. Naturalmente ciascuno di noi, secondo le proprie possibilità, comprerà uno zaino economico o, al contrario, uno zaino performante e bellissimo e scarpe di alta qualità. Fa parte dell’economia globale, tutto viene in qualche modo assorbito dal mercato, ma ciò che conta davvero non è questo, bensì il piacere di partire. Persone con molti soldi, e spesso poca esperienza del mondo, comprano attrezzatura costosa, a volte inappropriata, puntando troppo sull’estetica e non sull’utilità: avere un buon zaino o delle buone scarpe è più importante. Per me, però, è secondario rispetto alla camminata. Anche chi compra belle scarpe e zaini troverà comunque grande piacere nel camminare. E alla fine scoprirà che scarpe semplici, più morbide, economiche, sarebbero state migliori per non farsi male ai piedi.
La performance è sempre stata presente, e non è un problema. In città a Milano c’è chi corre e supera. Lo stesso avviene sui sentieri: ci sono uomini e donne che camminano molto velocemente e ti superano. È normale: un ventenne camminerà veloce, una persona con problemi di salute o alla schiena camminerà più lentamente. Ciò che amo del camminare è un grande principio antropologico: ci vuole di tutto per fare un mondo. Ci vogliono persone più giovani che vogliono allenarsi e percorrere un sentiero rapidamente, e altri che prendono più tempo. L’importante è l’incontro tra ambienti sociali diversi. Nella mia esperienza, chi ti supera, in bici o di corsa sui sentieri, quasi sempre ti saluta, quasi sempre ti sorride. Siamo nello stesso mondo, solo con ritmi diversi. C’è una comprensione reciproca: ognuno usa il sentiero a modo proprio, senza disprezzo. Alcuni camminano nella performance, altri nella lentezza e nella flânerie.
Camminare: un luogo di trasmissione in cui ritrovare sé stessi e gli altri
Come convincerebbe in poche parole qualcuno ad avvicinarsi al mondo del camminare?
È molto importante far camminare i bambini, gli adolescenti, le giovani generazioni, perché stanno perdendo la capacità di conversazione, la disponibilità verso l’altro per lunghi momenti di scambio. Camminare è diventato così un luogo di trasmissione: dai nonni o dai genitori ai figli. Oggi i bambini stanno spesso davanti agli schermi per ore, hanno sempre meno contatto con i genitori, il che crea problemi sociali in tutto il mondo: hanno l’impressione che il mondo si riduca allo schermo, la mappa, il gps, hanno sostituito il territorio. Dal punto di vista antropologico, stiamo perdendo moltissimo.
Quando genitori, nonni, zii fanno camminare i bambini, si crea un momento di reale disponibilità e vicinanza: i giovani possono capire meglio la storia della propria famiglia e scoprire un mondo al di là dello schermo. In foresta, per fortuna, la rete non funziona bene. E se si cammina guardando il telefono, si rischia di inciampare contro una radice! La camminata è una forma straordinaria di resistenza: è il ritorno alla conversazione, allo sguardo dell’altro. Quando si conversa, ci si guarda negli occhi. Certo, camminando si guarda davanti a sé, ma ci si gira spesso verso l’altro per condividere emozioni o verificare l’accordo. Tutti i giovani dovrebbero camminare e scoprire quanto sia vasto il mondo.
Che cosa la sorprende ancora dell’essere umano?
Credo che in questo momento ciò che mi sconvolge di più sia questa capacità del male che caratterizza la condizione umana. In tutto il mondo vediamo abomini, l’aumento del razzismo, dell’odio verso l’altro, verso i poveri. Vediamo moltiplicarsi comunitarismi rigidi e aggressivi. Come antropologo, so che la storia dell’umanità è stata molto dolorosa e tragica per innumerevoli popolazioni, ma ho l’impressione che negli ultimi anni ci sia una sorta di incandescenza del male. E ovviamente metto il “male” tra virgolette, perché, come antropologo, per me non è affatto una questione teologica. Si tratta semplicemente della capacità dell’essere umano di fare del male all’altro, indifferente alle atrocità e alle sofferenze che infligge. Questo è qualcosa che mi inquieta e mi preoccupa per il futuro: siamo sempre al limite di conflitti globali, con politici che sono persone molto poco raccomandabili, per dirla in modo gentile. Questo è ciò che mi turba di più. Ecco perché amo camminare: perché è un modo per dire “lasciamo perdere, prendiamoci del tempo” e ritrovare valori di amicizia, di riconoscenza dell’altro, di lentezza, pace, amore per la natura e per il mondo animale.
