Cammini
21 Ott 2025

Come un Cammino può insegnarci a lasciare andare e a diventare noi stessi

Qual è la cosa che ti piace di più di un cammino? La possibilità di viaggiare lentamente e in modo consapevole, scoprendo passo dopo passo i luoghi che stai attraversando? Gli incontri che farai lungo la strada? I paesaggi inaspettati e i sapori nuovi, che a volte incredibilmente ricordano casa? L’immersione nella natura o in culture che non conosci? La scoperta di quanto poco ci serva, quando tutto quello di cui abbiamo bisogno riempie lo spazio di uno zaino?

Ho dimenticato qualcosa? Sicuramente sì, ne ho dimenticate troppe. Io, in ogni caso, ti risponderei: “Queste cose, tutte insieme, ma, soprattutto, la capacità di lasciare andare”. Per me si tratta di qualcosa con cui ho fatto negli anni parecchia fatica a fare i conti, dal punto di vista fisico (mamma mia i traslochi!) e mentale (che fatica lasciare andare il passato, soprattutto con le sue delusioni). 

Eppure, un cammino dopo l’altro, dal più breve al più lungo, mi sono accorta di quanto ognuno di essi sia una preziosa occasione non solo per scoprire qualcosa e farsi attraversare da esperienze nuove, ma soprattutto per metabolizzare, renderci conto di ciò di cui non abbiamo più bisogno e, appunto, lasciare andare ciò che non fa più parte di noi. Io, per spiegarlo ai miei amici, lo definisco un “camminare via”. Che non significa per me “scacciare” qualcosa, o “scappare da”, ma piuttosto un digerirlo, tenendo le sostanze nutritive ed eliminando tutte quelle che non servono. 

Camminare: non una via di fuga, ma un modo per rendersi liberi

Oltre ai benefici provati per la salute, mentale e fisica di cui avevamo parlato anche qui sul blog Cammini d’Italia, ogni cammino ha un immenso potere trasformativo. Come scrive Hermann Hesse nel suo saggio breve Camminare, “Ogni cammino ha il suo mistero, e solo chi cammina sa quanto è dolce lasciare dietro di sé ciò che non serve più.”

Il mio primo cammino mi ha subito insegnato in maniera molto pratica a lasciare indietro tutto ciò di cui non avevo bisogno: il peso del mio zaino è stato il mio primo ostacolo. Lo avevo preparato ascoltando i consigli degli amici che ne avevano intrapreso almeno uno prima di me, ma le cose non si imparano mai solo per sentito dire, vanno provate sulla propria pelle, o meglio, sulle proprie spalle – e gambe, ginocchia, piedi…

Dopo le prime tre tappe del Cammino Francese di Santiago mi sono resa conto che avevo portato con me un sacco di cose di cui non solo non avrei avuto bisogno, ma che avrebbero anche reso più difficile e faticoso il mio viaggio – per non dire pericoloso. Ecco che ho abbandonato in ostello, per chi avrebbe potuto averne bisogno, numerosi oggetti, e rispedito a casa le cose con un valore affettivo, ma di cui avrei potuto fare a meno. Una metafora potentissima. 

Dice lo scrittore Enrico Brizzi in un contributo a L’arte di fare lo zaino di Andrea Mattei: “Un’altra cosa che mi colpisce molto è come varia il peso dello zaino tra l’inizio e la fine del viaggio […] Mi sembra una sorta di metafora: le certezze e i pregiudizi dei quali siamo carichi prima di sottoporci a una prova entusiasmante e impegnativa sono fatti di materia viziosa, maschia e greve, dura da scalfire e tenace nel resistere all’assedio. Al principio del viaggio, nello zaino pesano fieri e ignoranti come incudini.”

“Per contro,” continua, “le nuove domande e le prospettive che si sono andate spalancando nel corso del viaggio stesso sono leggiadre come virtù di fanciulle o speranze di madri che reclamano pace. Rispetto al peso di cui ci si è liberati, possono fare pensare a mitologiche piume dorate, molecole di pura luce, preghiere semplici di bimbi; con un carico così soave nello zaino si fila leggeri, risalendo di buon passo il rosario dei segnavia, finalmente consapevoli di quale fortuna tocchi a chi impara orizzonte dopo orizzonte a vedere il mondo con occhi nuovi, a meravigliarsi di tutto, a godere della beata follia che trasforma ogni passo in una nuova carezza a una terra amica e misericordiosa”.

Camminare: lasciare andare le preoccupazioni e riconciliarsi con se stessi

Nei suoi diari, il filosofo danese Søren Kierkegaard, padre dell’esistenzialismo, scriveva che “Io cammino ogni giorno per sfuggire alla malattia della mia mente. Quando cammino, i miei pensieri scorrono meglio, e così lascio andare le preoccupazioni.” Per lui, più che una pratica fisica era infatti una pratica spirituale, che lo aiutava a dissipare l’angoscia e a ritrovare il giusto equilibrio. 

Quando devo prendere qualche decisione importante e mi rendo conto di essere nel mezzo di una ruminazione in cui è difficile individuare con chiarezza la via giusta, preferisco muovere il corpo e fare due passi. Funziona per me come strategia quotidiana, o anche come metodo di più lungo periodo quando ho a disposizione più giorni di cammino. Se ho la possibilità di farlo, rimando alcune scelte a un momento successivo, perché so che quella nuova scansione del tempo e quel ritmo saranno in modo di riportare lucidità.

Quella di Kierkegaard – o la mia! –  non è un’evasione, la fuga disperata dalla tenaglia dei pensieri, quando un rito di riconciliazione con sé stessi: ogni passo è un atto di fiducia nell’esistenza, un modo per trasformare il pensiero pesante in movimento vitale. Camminare, per il filosofo, è pregare con i piedi. Per me ha un valore e un effetto che si avvicina molto a una seduta di terapia con me stessa, con un ritmo che scelgo io grazie ai miei passi e che mi porta alla consapevolezza. 

Nelle sue Confessioni Jean-Jacques Rousseau, in un periodo in cui come scrive Rebecca Solnit il camminare si stava imponendo come atto culturale consapevole e non solo come mezzo per conseguire un fine, osservava come: “Non riesco a meditare, se non camminando. Appena mi fermo, non penso più, e la testa se ne va in sincronia con i miei piedi.” 

Camminare: perdere tutto, perdere se stessi, e ritrovarsi

“Camminare è un modo per perdere se stessi e allo stesso tempo ritrovarsi.”, scrive Rebecca Solnit nel saggio Wanderlust: A History of Walking (2000). La scrittrice e attivista americana intreccia in queste pagine filosofia, arte, politica e geografia del cammino, vedendo in quest’ultimo una resistenza silenziosa, un gesto insieme politico e poetico, in quanto ci permette di riprendere la giusta velocità e il ritmo della natura in un mondo che accelera continuamente; implica la scelta di essere presenti, attraverso il corpo, anziché produttivi. 

Come scrive anche David Le Breton, «Celebrazione del corpo, dei sensi, dell’affettività, della messa in movimento dell’intera persona, della presenza attiva nel mondo, il camminare rimette in contatto con se stessi e con la sensazione di esistere». Un’evoluzione dal cartesiano Cogito ergo sum, in cui veniamo al mondo camminando.  Camminare ci permette quindi di lasciare andare – le preoccupazioni per il futuro o i dolori del passato – perché ci riporta nel presente, nel qui e ora.

Non so se è mai capitato anche a voi, ma un cammino mi ha permesso di superare una delusione amorosa e ho raccolto racconti di persone che grazie  a un cammino sono riuscite a elaborare con più facilità un lutto. Ad aiutarmi non è stato solo il potere meditativo di questo atto ripetuto e cadenzato, ma anche le ore di tempo che mi sono trovata a trascorrere da sola con me stessa, quanto anche i confronti umani ed emotivi con persone sconosciute che hanno avuto qualche tipo di risonanza con i loro racconti. 

Lasciare andare: fare spazio per il nuovo

Non sempre serve rimandare. È una strategia che possiamo esercitare, in piccolo, anche nella nostra vita quotidiana. “A volte, mentre lavoro,” scrive l’esploratore norvegese Erling Kagge “mi sembra che il mio cervello vada in sciopero. Provo a raccogliere i pensieri e a elaborarli, ma niente, non ci riesco. Mi sembra di sbattere la testa contro un muro. Invece di rimanere seduto, preferisco uscire e farmi una passeggiata di un quarto d’ora. Certe volte non succede niente, altre invece mi si sbloccano i pensieri e sento ribollire in testa nuove soluzioni ai problemi su cui mi stavo scervellando.”

Certo, dice Kagge, non basta muoversi per diventare il nuovo Steve Jobs, ma è possibile che camminando si metta il cervello nelle condizioni di liberarsi di alcuni filtri iperrazionali, ed ecco che nuove idee possono emergere. Lasciare andare significa infatti anche fare spazio per il nuovo. John Muir, naturalista e scrittore scozzese-americano, padre dei parchi nazionali statunitensi, visse il camminare come forma di comunione con la natura e per essere dentro il mondo, purificati dalla bellezza e da ciò che è selvaggio e così in grado di lasciare andare il proprio ego. “In ogni passeggiata nella natura l’uomo riceve molto più di ciò che cerca.”

Lasciare andare: sentirsi pronti

Henry David Thoreau vedeva nel cammino un atto di disobbedienza civile e spirituale: un modo per rifiutare la routine, la civiltà e l’artificio e ritrovare naturalezza e selvatichezza dentro di sé. Come scriveva in Walking (1862): “Camminare è un’impresa avventurosa, e chi la intraprende deve essere pronto a lasciare tutto per mettersi in cammino.”

A volte, quando mi mancano la voglia o il coraggio, cerco di fare uno sforzo in più: lo so che a volte bisogna prima iniziare a muoversi, e che verranno camminando. Ma è anche vero che ci sono volte in cui bisogna sentirsi pronti, e riconoscere quando potrebbe non essere il momento. Ti consiglio di leggere il prezioso articolo di Sara Massarotto, che ha raccontato qui su Cammini d’Italia “Come un cammino può aiutarti durante una crisi personale”, raccogliendo consigli utili per riflettere sui benefici – e sui pericoli! – di intraprendere questo viaggio in un momento delicato della propria vita. 

Ogni cammino, a modo suo, ci insegna che per andare avanti serve, a volte, posare a terra ciò che ci appesantisce. Lasciare andare non è perdere qualcosa, ma fare spazio per ciò che verrà – e per ciò che saremo.

Articolo di
Alessandra Lanza

Giornalista, fotografa, creator e project manager: racconto cose, cammino molto, porto i miei genitori a fare cose che senza di me non farebbero e non bevo. Nel tempo che rimane continuo a camminare!