Cammino di San Filippo Neri – Diario di Alberto R.
“…da queste parti, memore in parte del Cammino di San Benedetto – con cui in minima parte il San Filippo Neri “confina”, confidavo di trovare: paesaggi naturali quasi incontaminati, vita semplice, nessuna fretta e persone gentili.
È andata oltre ogni più rosea previsione.
Stavolta si può proprio dirlo: è il Cammino che ha scelto me, non viceversa.”
Cammino di San Filippo Neri
IL Cammino di San Filippo Neri è un percorso di 120 km circa suddiviso in 7 tappe che ripercorre le tracce del primo pellegrinaggio compiuto dal Santo della Gioia. Si parte da Cassino, la vecchia San Germano, all’ombra del monastero più importante al mondo. Oggi Alberto ci racconterà la sua esperienza lungo il Cammino di San Filippo Neri condividendo il diario giornaliero.
Tappa 0 – Martedì 18 Luglio
È l’una passata del mattino.
Non è esattamente l’ora indicata per preparare lo zaino, ma è proprio quello che sto facendo. Un po’ la stanchezza, un po’ la micidiale afa della Bassa Friulana e un po’ tanto l’alcol rendono l’operazione più complicata del solito. Nonostante tutto la si porta a compimento, con dignità e qualche rumore molesto spero non colto dal vicino.
Mi schianto a letto, l’assiolo ritma la notte con il suo canto e il sudore mi cola da ogni angolo: pare impossibile prendere sonno, mi sa.
La sveglia sarebbe suonata tra meno di quattro ore.
“Se ti offro un bicchiere riempito per metà d’acqua per te è mezzo pieno o mezzo vuoto??”
Pareva una domanda posta da quel premio Nobel mancato di nome Bella Gianda, invece è l’incipit del capitolo del romanzo che la donna seduta a fianco a me in treno sta leggendo. Io avrei risposto: “Mah, che cazzo vuoi che ne sappia, ho sete!”
La tipa invece è bella presa, se si mette d’impegno entro domani lo conclude.
Il bar dei cinesi davanti alla stazione di Mestre è una certezza, altro che.
Peccato che a farmi compagnia non ci fosse il romanziere, perché, eh sì, gli avrei posto una bella domanda: “Perché la gente di colore, per quanto scura, ha la pianta dei piedi bianca???”
Cambio treno e via fino a Roma Termini, cinque ore paiono un’eternità ma se penso a quando facevo il pendolare all’università…
Si attacca bottone con una famiglia peruviana lì in vacanza: in una settimana si fanno Venezia, Roma e Milano. Da non invidiarli neanche un po’.
“Oh, i miei amici mi scrivono per farmi l’in bocca al lupo per il Cammino. Che dolci…” ☺️
Articolo condiviso: pellegrino sulla Via Pervinca si perde, cade e muore…
Malù, l’ospitaliera di oggi, aveva sentenziato:
“Non ce la fai a venire da me!”
Vabbè, che vuoi che sia attraversare Cassino in orizzontale, godendone della sua bellezza – rasa al suolo durante la Seconda Guerra, ormai rimane solo una zona industriale per metà dismessa, qualche reperto di epoca romana e case costruite in stile Anni Cinquanta – e il suo tepore, con solo quarantadue gradi all’ombra.
“Ti passo a prendere io!!”
Il cervello, imbevuto di pio spirito cristiano e mentalità friulana, predica: ma no, non serve che ti disturbi, ce la faccio, è caldo secco e non umido come da me e si sopporta meglio, non fare strada, non scomodarti, non… Macché, vacca boia, c’è una discreta esultanza interiore e via che si va su sul bolide di Malù, verso la dimora.
La casa, vista da fuori, è deliziosa; dentro lo è ancora di più. Esordisco da pellegrino pestando il piede al cane, che fugge come una scheggia e chi lo rivede, e ricevendo l’occhiata diffidente dei gatti, che mi scansano appena.
Ricevo un cestino pieno di frutta e verdura, la fetta d’anguria è divorata in pochi secondi ❤️
Destino di un pellegrino sempre più pigro con il passare degli anni:
“Ah, vara che ben, ho tutto il pomeriggio libero, quindi ora con calma faccio la doccia e lavo i vestiti così che…”
Appoggiato il culo sul letto mi addormento come Polifemo ubriaco prima di essere impalato; non hanno ancora inventato i vestiti che si lavano da soli, purtroppo.
“Alle venti ho lezione di yoga..”
☺️
“Vuoi venire??”
😳
“O preferisci fare un giro in centro??”
😌
Quando si era iscritto al gruppo del Cammino mi avevano chiesto se mi fossi aggregato con loro quel giorno: purtroppo avevo un impegno e nulla di fatto, anche se a seguirli mi pare che le cose gli stiano andando benone. Forse, con un po’ di fortuna…
“Ci sono altri pellegrini che partono domani da Cassino??!”
“No!”
Ottimo.
Seduti in giardino su una panchina in plastica, con i piedi distesi sul tavolino di fronte, guardo le stelle – o quel poco che si vede – ascoltando la vita di Malù.
Bene, sono pronto a partire.
Tappa 01 – da Cassino a Sant’Ambrogio sul Garigliano
Mi sembrava strano, o quanto meno molto particolare, per non dire bizzarro: dato che la credenziale non è riuscita ad arrivare via posta a casa, sarei partito senza. Però niente paura :
“Per prendere la credenziale vai al bar Gnegnegno, te la daranno!!”
“Alle sei saranno aperti??!”
“Sì, aprono a quell’ora, vai tranquillo!”
Invece mi sa che a quell’ora aprono la finestra a casa loro per vedere che tempo fa, appena svegli, dato che io e Malù arrivammo all’ora convenuta e il bar era chiusissimo.
Congedata Malù, gran ospitaliera, rimasi lì ad aspettare facendomi mangiare dalle zanzare.
Un’ora più tardi, desideroso di un bagno, andai al bar all’angolo opposto, apertissimo, sin quasi spalancato:
“Buongiorno, dov’è il bagno per favore??!”
“È rotto, non va!!”
“… (Ortomio!!)”
“È uno scherzo!!! È la in fondo!!”
Beh, gli era uscita benissimo al barista, niente da dire, però ortomio ugualmente. Il barista comunque sa il fatto suo, cazzia uno perché vuole pagarlo con un cinquantone alle sette del mattino.
È ufficiale: il bar Gnegnegno ha turno di chiusura il mercoledì, ti pareva. Mi incammino con la sensazione che tutti i bar di Cassino fossero aperti e operativi, che ci fossero più bar a Cassino che in tutta Pordenone, ma non il bar che mi interessava.
Una volta uscito da quell’insieme di rotonde, cantieri, asfalto, cemento e architettura razionalista di nome Cassino – la verità è che il bombardamento, l’occupazione e la Linea Gustav, qui, non sono mai state dimenticate -, giungo in un non-luogo chiamato Sant’Angelo in Theodice. Ci sta I., amica del Cammino con tanto di timbro.
Timbro dove, intanto? Sulla guida, è l’unica soluzione.
Mi offre un bicchiere di tè alla pesca ghiacciato, bel gesto, anche se parliamo della bevanda più assetante di sempre. Mi chiede da dove vengo – “È venuto dal Friuli a piedi??!” -, mi dice che l’altro giorno è venuto il gruppo del Cammino:
“Erano in quindici, sembrava una scampagnata!! Come può uno fare raccoglimento, così.. “
Comunicare non è sempre facile, gli accenti non si accordano e lei è un po’ dura d’orecchi, comunque assieme alle figlie mi augura buon cammino e di fare molta attenzione.
Il caldo è atroce e il sentiero sul lungofiume non è proprio meraviglioso anche se discretamente tenuto. Sulla guida ci sta scritto che sul Gari ci stanno le lontre ma non ne scorgo mezza. L’unica allora è andare il più rapidi possibile, evitare di carbonizzarsi sotto il sole inclemente, costeggiando il confine tra Lazio e Campania.
Il Creatore del Cammino, con un vocale, mi assicura che troverò la guida al bar del paese in arrivo. Ormai ne facciamo una questione di principio, il suo “In qualche modo combiniamo” mi echeggia in testa a lungo: chissà che non debba prenderne esempio.
Passato il ponte sul confine regionale arrivo al campo sportivo di Sant’Ambrogio sul Garigliano, che decisamente ha passato tempi migliori di quelli attuali. Chiedo a uno stradino se posso usare la gomma dell’acqua, con cui sta lavando la betoniera, giusto per darmi una sciacquata. Dà così il via a un breve monologo:
“Anch’io facevo quello che fai tu – dice con un duro accento, più simile al napoletano che al romano – sono salito sul Gran Sasso e poi Monte Cassino tante volte… Poi sono arrivati i figli e stop, tutte le energie sono per loro, ho smesso…”
Io quelli che dicono che con i figli hanno smesso di fare qualsiasi cosa proprio non li capisco.
La guida propone di abbordare il colle con una carrareccia, formando una specie di metà anello in avvicinamento al paese.
Il GPS mi mostra una salita dritta come un fuso, ripida, in battuta di sole, ma cazzo, dai che si arriva rapidi a destinazione sparagnando qualche chilometro.
Ciao ciao guida, hai poco da competere stavolta.
Al bar arrivo come un fantasma, un fantasma molto sudato e impolverato. Chiedo alla barista come fa a star lì a quell’ora:
“Infatti di solito tengo chiuso!!”
Mi dà la credenziale, il mio cuore si apre.
Mi sbrigo ad arrabattare un pranzo, poi vado nella canonica del paese a collassare sul letto; un forte mal di testa e un vento bollente e costante mi cullano in vari sonni interrotti e ripresi.
Al Cammino di San Benedetto mi ricordavo, di queste zone, la gentilezza della gente del luogo: sconosciuti che chiedono come stai; il bar che mi tiene aperto per farmi pranzare; la pizzeria che mi porta la pizza in paese perché sono a piedi; locali che mi offrono birra e coi quali si chiacchiera di tutto, ma proprio di tutto.
Io, girando in auto, un posto così non l’avrei mai visto. E sarebbe stato un peccato.
Alla fine conosco don L., l’ospitaliere di tappa che mi ha messo la canonica a disposizione:
“Vai a dormire presto??!”
“Eh, sì…”
“Facciamo le prove col coro per un matrimonio in canonica, speriamo di non disturbarti troppo!!”
“…”
“E domani dove dormi??”
Ahia, mica ho preso la canonica domani, andrò all’agriturismo… Glielo dico:
“Fatto bene. Si mangia benissimo e hai la piscina. Farai fatica a mollare quel posto…”
Le prove dovevano iniziare alle venti.
Non hanno ancora cantato una singola nota ❤️ (ore 21.26!)
Tappa 02 – da Sant’Ambrogio sul Garigliano a Bosco d’Olmi, via Sant’Andrea del Garigliano
Oggi in programma una tappa facile che, strano a dirsi, si rivelerà tale, caldo a parte.
La quiete prima della tempesta di domani.
“Ti ha pagato il ragazzo metà colazione!! Sa, quello con la barba, lo ha visto prima…”
Sì, ci avevo parlato ieri, quelle chiacchierate con estranei dove si parla di tutto: come si vive in paese, che lavoro si fa, abitudini, famiglia, aspirazioni… Ieri con lui ero in debito di un paio di birre, ora la colazione… Di sfuggita stamattina mi ha salutato, augurandomi un buon Cammino e di stare attento, che a camminare da soli non si sa mai.
Il cuore e la curiosità della gente di qui mi colpiscono molto.
Il sentiero si svolge su una comoda carrareccia che costeggia il fiume, semplice da seguire. Se pensavo di soffrire di solitudine meglio lasciar perdere, almeno una decina di mosche, tafani, pappataci e zanzare mi accompagna con gran interesse per svariati chilometri, manco fossi i Ferragnez con i loro followers.
Alle nove e mezza giungo alla grande attrazione della tappa di oggi, ovvero la fonte della Mola di Salomone.
Il sito è uno specchio d’acqua sulfurea di colore zaffiro, molto fresca al tocco e buona da bere – tanto che si dice che sia un ottimo palliativo contro l’ipertensione.
L’impressione che mi lascia è che il sito può essere curato e reso più fruibile, se non altro con qualche cartello informativo e magari una panchina; rimane una chicca, una di quelle che si possono scoprire solo viaggiando a piedi.
Dato che sono in largo anticipo, decido incamminarmi e visitare Sant’Andrea del Garigliano, che sta appollaiato su uno spuntone di roccia ed è visibile a chilometri di distanza.
Incontro un runner sul tragitto, uno di quelli scampati dalla persecuzione di qualche anno fa:
“Quanti chilometri fai oggi??”
Sarò strano io, ma di solito ad un estraneo chiedo dove va, da dove viene, amenità del genere. Soddisfo la sua curiosità, lui rincara la dose:
“Io ne faccio uguali, ma correndo!!”
E se ne va.
Forse i runner erano una specie da perseguitare, solo che l’abbiamo fatto per i motivi sbagliati.
Sant’Andrea del Garigliano è uno di quei paesi montani soggetti allo spopolamento. Ci sta pure, dopo i disastri combinati dai Saraceni, Normanni, Regno delle Due Sicilie, brigantaggio, regime fascista, occupazione nazista, bombardamento alleato e terremoto in Irpinia.
Lo sconforto è evidente nelle parole del barista:
“Ho tre figlie, ma nessuna vive qui!”
Mi dispiace, ma in effetti non so perché dovrei fermarmi a vivere in un posto così, per quanto carino e ameno.
Alla locanda si mangia molto bene, qualche avventore mi chiede del percorso. Alla domanda da dove vengo, parte un commento di pura ammirazione:
“Dal Friuli veniva una delle squadre più forti di caccia al cinghiale, sono arrivati qui per il torneo!! Erano bravi poi con la carabina, quelli!!”
M. mi accompagna gentilmente all’arrivo di oggi, il clima è meglio di ieri ma mettersi per strada nel pomeriggio non se ne parla.
M. ci tiene in tutti i modi a farmi vedere il suo paese da sotto, come a formarmi una fotografia mentale del luogo che sto lasciando:
“Vedrai che bello che sarà a vederlo dalla montagna, domani!”
Arriviamo alla struttura che mi ospita e M. è come intimidito dalla scelta:
“Qui ci stanno i bungalow e la piscina, è una situazione molto bella qui!!”
Sì, me n’ero accorto dal prezzo, ma sono certo che ne valga la pena.
“Non ha portato il costume??”
“No…”
“Perché??? Lo sapeva che c’era la piscina…”
Certo, sì, mi era stato detto al telefono e da qualsiasi anima che ho incrociato qui. Vero. MA meno cose si mettono nello zaino e meglio è, e con un costume non è più finita, vuoi non metterci crema solare, ciabatte, asciugamano, cuffia, ecc ecc, tutto poi da portarsi via, in cammino, grammi, che poi diventano chili destinati a scaricarsi sulle spalle, schiena, ginocchia, caviglia e quindi i piedi, generando peso, quindi stanchezza, infine dolore, dolore che sì fa parte della parte pellegrina – insomma, un agriturismo, una piscina, San Filippo Neri e i vari pellegrini mica hanno potuto sfruttare questi agi, quindi non è proprio in linea con i concetti di un Cammino pellegrino, che poi va bene, è pur sempre una vacanza, però certo né un all inclusive né un calvario, una via di mezzo che concili……
Tocca replicare alla signora:
“Beh…”, allargando le braccia.
Bravo Alberto, ottima spiegazione.
“Vabbè, vuol dire che il bagno non lo farà!”
Amen.
F. è un amico del Cammino che è giunto sino a Bosco d’Olmi per fare due chiacchiere con me, chiedermi come sto, se c’è qualcosa del Cammino da migliorare, cosa ne penso, perché sono qui, eccetera.
I ragazzi qui hanno molta strada da fare, dopo tutto hanno iniziato da un anno giusto – spero con tutto il cuore che, a prescindere dallo sviluppo del Cammino, mantengano questo spirito.
Lei è la matrona del luogo, la memoria storica del posto, l’addetta ufficiale dell’orto, ma è chiaro come il sole che una così spostava le montagne sino a un lustro fa. E quindi, spinta lei dalla curiosità…
“Dove arriva domani??”
“A…”
“Madonna mia, e come fa??”
“Eh, con calma…”
“È da solo??”
“Sì!”
“Ma non ha paura??”
“Di cos…”
“Ci stanno gli spini, i sentieri non sono più tenuti, vipere, lupi, cinghiali, forse i pastori coi cani, può scivolare, cadere, farsi male…”
Zio nane, mi ha quasi fatto passare la voglia di fare il cammino.
“Però tempo fa è venuta una ragazza, era sola ed è salita con la pioggia…”
E allora….
Ci lasciamo per i saluti a domani, quando mi alzerò lei sarà sull’orto a bagnare le piante, come ogni mattina.
Il tappone mi aspetta.
Tappa 03 – da Bosco d’Olmi a Santuario Santa Maria del Piano
Immaginate di dover disegnare una montagna: proprio come i bambini, ci si affiderebbe a una specie di triangolo isoscele rovesciato, sperando che vada bene.
Guardate, va benissimo. Oggi il grafico di tappa è così, mille di dislivello a salire e altrettanti a scendere.
L’ascesa non è stata neppure male, l’unico inconveniente era rappresentato dalle ragnatele enormi in cui ci si imbatteva strada facendo. Immaginavo i miei amici aracnofobi nel panico, a lanciarsi giù dal dirupo sottostante.
In cima, la crisi: di fatica, di pensiero. In qualche modo si è arrivati a Vallaurea, ma non con l’animo sereno. A seguire la lunga e affascinante discesa, passando davanti al monumento della pace di Marinaranne e a versanti di colore ocra, verde e grigio.
Lui vive lì da una vita, un estraneo lo scorge facile dall’altro lato della valle. Mi raggiunge col Pandino e esordisce con un affabile:
“Ma tu che ci fai qui con questo caldo??”
Gli rispondo, gli spiego e non comprende – come io non comprendo gli appassionati di combattimenti tra cani, chi dice che insegnare è una missione e la gente che paga per vedere questi U2.
Entro a Coreno Ausonio, un delizioso borgo abbarbicato sul lato della montagna e abitato da una fauna varia e singolare:
– il vecchietto che, una volta ascoltato il tragitto di oggi, dice: “Che coraggioso!!”, ma il tono mi sembrava buono per dire un’altro aggettivo che inizia con “Co…” e termina con un falso accrescitivo;
– il barista al quale si chiedono tre informazioni e non ne sa mezza. Almeno la birra costava poco…;
– la scollatura di una squinzia del posto, non centra niente ma mi mette sempre allegria e buonumore;
– la signora che chiama il suo conoscente per dirgli che un pellegrino sta aspettando alla Pro Loco, se può aprire…
– Ari, la moglie del presidente della Pro Loco che mi porta il timbro, due pesche freschissime e una bottiglia d’acqua, e si sorprende moltissimo perché così tanta gente si mette a camminare;
– Totò, il cane adottato dal paese e che mi accompagnerà fino a destinazione – “Sa tornare a casa da solo, non si preoccupi!!”
Il boomer del bar sulla provinciale merita una descrizione a sé.
Maglia nera non si sa se più unta o sudata, ricrescita di colore indefinito, chiacchiera sciolta con voce scartavetrata da milioni di Marlboro. Assomiglia troppo a un mio parente, è simpatia a prima vista:
“Di dove sei??”
“Di…”
“Ah, conosco, lavoravo lì vicino, a Verona!”
“… (Occhiata di uno che vorrebbe un minimo dissentire sulle coordinate geografiche)”
“Ma sì, sei su di là anche tu, dai!”
In dieci minuti scarsi racconta: del suo lavoro di scavatore di cave di granito; altro che Maldive, non c’è nulla di meglio del mare in Sardegna; quella volta che ha smerdato un barista a Bolzano perché non parlava italiano, imitando entrambi gli idiomi; le lingue sono importanti, ma l’inglese (che non sa) di più perché; quella volta che si scopava una tedesca; poteva diventare milionario comprando una cava in Camerun, ma un inciucio tra governo locale e un’azienda cinese gli ha fatto saltare l’affare. “E hanno pure trovato i diamanti, i merdosi!”; litigio con l’amico – ma più che amico, passivo ascoltatore – per quale strada dovrei prendere per andare a Ausonia; concessioni del comune per l’apertura di una strada a…
In dieci minuti scarsi.
Il finale, gran finale, prevede un bel tratto in asfalto all’una, per la gioia di tutti gli esperti sulle ondate di calore.
Totò mi fa compagnia: entra nelle chiese e negozi dove entro io, scava buche, distrugge fiori, caccia lucertole, si tuffa in ogni rigagnolo d’acqua e fontana, pianta risse con altri cani, attraversa la strada a zig-zag nei punti dove la minima autoconservazione non lo permetterebbe – attirandomi l’odio di tutti gli automobilisti, convinti che il cane sia mio.
Giunti a destinazione scrocca l’acqua da un vaso di fiori delle suore, piscia sulla colonna e riparte, chissà verso dove.
Ausonia è un bel centro, in cima a una collina; sta lì, sullo sfondo, chissà se mai la visiterò.
Ho realizzato di aver dimenticato a casa l’asciugamano, dopo aver quasi allagato il bagno delle suore.
Posso dire di aver cenato con un sacerdote.
Cose che capitano, in un cammino.
Tappa 04 – da Santuario Santa Maria del Piano a Esperia
La narrazione era rimasta sospesa su di me a cena con un sacerdote.
Una bella sospensione, non c’è che dire: come l’agente Cooper che entra nella Loggia Nera nella penultima puntata della seconda stagione di Twin Peaks; o Dante che sviene qualche volta durante la Divina Commedia, così che può passare di girone in girone senza dare troppe spiegazioni.
Sono andato a cena con un sacerdote perché, a parole sue, me l’aveva promesso. Non so quando me la fece questa promessa, di sicuro posso scrivere che me la ripropose mentre – stanco di aspettare e senza aver pranzato – stavo bevendo una birra e mangiando una pizza sul sagrato della chiesa; pizza e birra portate dall’unico ristorante con un servizio di consegna, stesso ristorante dove io e il don siamo andati a cenare.
Entrare in ristorante con una birra già aperta è stato un bel tocco di classe.
Anche fare due cene non è niente male, alla faccia dei pellegrini.
Penso al me di anni fa all’idea di andare a cenare con un sacerdote.
Abbiamo parlato di tutto un po’, è stato molto piacevole. Il suo congedo: “In bocca al lupo per il lavoro!”
Ne ho un estremo bisogno.
“Ormai sei una celebrità!!”
“…”
“La signora Pina Pani cerca il suo cane scappato da Coreno Ausonio. Il cane si chiama Totò. L’ultimo a vederlo è stato un pellegrino…”
L’uomo che aiutava a fuggire i cani.
C’è un’afa terribile già alle sette del mattino, la cena e l’acido lattico di ieri non aiutano a ingranare.
Seguendo il consiglio della guida mi fermo alla Chiesa della Madonna di Correano e conosco così il volontario Ale: mi porge il timbro, qualche chiacchiera di circostanza, cose così. E poi mi racconta la storia, la sua storia, della chiesa:
“Fino al sessantadue era praticamente in stato di abbandono, poi ci siamo messi a sistemarla, ma di nostra volontà, chi faceva quello che sapeva. C’erano degli affreschi dipinti direttamente sul legno, una cosa che a vederli non ci si dimentica.. E buttarono via tutto, a quel tempo non ci stava quell’attenzione, quell’ interesse. Io mi ricordo quelle immagini, ma non so descriverle..”
Si stava sin quasi dispiacendo.
Con il passare delle ore le gambe si sciolgono, il passo prende ritmo e si gode meglio la tappa. Il paesaggio è favoloso: muretti a secco, ulivi in piano, pinete.
A Colle Bastia trovo una specie che non avevo ancora incontrato da queste parti, il ciclista amatoriale; partendo da chissà dove sarebbe arrivato a Gaeta e rientrato, io la faccio in una settimana… Il ciclista ha fatto un’interessante considerazione:
“Non parto più all’alba, sudo di tutto per l’afa e non mi asciugo più! Tanto vale partire a mezzogiorno, il sole è alto e almeno asciuga”.
Arrivo in centro a Esperia, un paesino delizioso a me ovviamente sconosciuto.
Al tabacchino chiedo dove sta il negozio di alimentari, il tizio parte a raccontare da che il negozio era suo ma ha dovuto venderlo perché non guadagnava, fino a giungere al caro affitti, caro energia, è impossibile vivere così… Mio dio, io volevo solo un panino con la mortadella.
Al negozio di alimentari momento mitomania per me:
“Lei è quello del Cammino di Santiago!!”
“Beh, Sant…”
“L’ho vista su Facebook!!”
Una celebrità.
Chiedo se è possibile poter lavare i cenci che indosso e stendere il bucato, gentilmente la richiesta viene esaudita e addirittura mi si mette a disposizione il bagno del piano terra.
Mi rilassa passare le dita tra i vestiti, sentire l’acqua e il sapone che scorrono, illudersi che l’odore di sudore e polvere non si sia attaccato addosso.
Sarà forse per l’impegno che ci metto che due persone mi scambiano per un inserviente dell’albergo, chiedendomi delle chiavi e informazioni per prenotare. Mi dispiace, questo fa parte di una carriera lavorativa passata.
Domani, a leggere la guida, c’è una tappa tanto bella quanto difficile. Stasera quindi è meglio andare a nanna presto che…
“C’è festa in piazza!!”
“Ah…”
E non come l’arrembante sagra di casa o come le serate organizzate a Sarvignan, temo…
“Ci vai, no??”
“Sì, faccio un giro…”
Bancarelle ovunque, gente dappertutto, odori buonissimi e poi il concerto in piazza.
Suona lui: Rosario Miraggio.
C’è chi si vede a Lucca i Blur e chi a Esperia becca Miraggio.
Neomelodico napoletano, classe 1986, Wikipedia sostiene che ha pubblicato il primo album quando aveva dieci anni.
Beh, almeno ha esperienza.
L’Italia è quello stato unitario che va dal nord-est di “bacinella” sino al centro-tirrenico “bagnarola”.
Tappa 05 – da Esperia a Filetto di Formia
Una tappa che si può riassumere così: tocchi il cielo con un dito, però poi hai altri venticinque e rotti chilometri da fare.
Ogni cammino ha la sua tappa pacco.
In principio fu l’uscita dall’albergo per scoprire che, per raggiungere l’inizio tappa, dovevo coprire il dislivello tra la parte bassa di Esperia e quella alta.
Aggiungendosi ai già millecinquecento metri di dislivello previsti oggi.
Il percorso è asfaltato e si snoda su una gola, in cima alle montagne qualche rapace volteggia controllando il territorio.
Mi trovo a pensare all’ospitalità della gente del posto. Gente del posto che ha passato questo durante la Seconda Guerra: beni requisiti dagli occupanti nazisti; uomini arruolati a forza, donne vecchi e bambini costretti a rifugiarsi nelle grotte dei monti circostanti; campi e strade minati; rastrellamenti; bombardamento alleato; stupri e violenze delle truppe francesi e marocchine giunte a liberare il territorio; dimenticatoio successivo.
Robe da odiare l’intera umanità.
E questi ospitano ancora. Bravi, ammirevoli.
Polleca, Rio Torto, Macère, Sant’Onofrio sono amene località, perlopiù abitate da pastori, che preparano l’ingresso al Parco Naturale dei Monti Aurunci. Un gran numero di mandrie di ovini, cavalli e mucche si aggira, i campanacci e i latrati dei cani pastore fanno da colonna sonora in vari punti della tappa.
Arrivo al sentiero CAI. Se la strada fino a quel momento saliva, beh, da lì ho dovuto rivedere il concetto di salita: ovvero un muro lungo, a volte eterno, spesso dal fondo sconnesso, battuto sovente dal sole, apprezzato enormemente dal sottoscritto.
Qualche elemento umano lo si incontra, ma non so se esserne contento o meno: due ragazzi in Converse e un cane provano a precipitare giù dal sentiero non riuscendoci; un ciclista che mi dice che dovevo partire prima; un runner statunitense mi chiede indicazioni e poi fila via, in una trasposizione umana del cartone Beep Nero e Willy Coyote; genitori che provano a saggiare alla propria prole la bellezza della montagna.
Arrivo all’area picnic schiantato dalla stanchezza, attorno a me mucche vagano tra auto parcheggiate, famiglie attorno al barbecue, caos da diporto domenicale.
Chissà se le mucche capiscono che gli umani stanno cuocendo sulla piastra resti dei loro simili?! Temo di no, non capiscono.
Crollo a dormire sulla prima panchina all’ombra che trovo, cinque minuti di ristoro non possono che fare bene in una tappa così. Cullato dai rumori attorno dormo per un’ora e mezza. Vengo risvegliato da tre anziani che si erano accomodati ma non volevano disturbarmi.
Mi scappa, esco un attimo dal sentiero per farla. Un pastore dà un segnale e mi trovo circondato da una torma di cavalli.
Zero privacy a mille metri di quota.
Arrivo al Monte Redentore, vedo la statua e poi il panorama. Non ci sono parole e immagini che possono descrivere la bellezza che ho visto.
Mi viene l’idea del video, fa schifo ma è da apprezzare la sicurezza delle coordinate spaziali.
Scendo dal monte, mi sembra di aver fatto sei tappe in una. È ufficiale, non capisco nulla, voglio solo arrivare. A memoria, così:
– il fascino dell’Eremo di San Michele Arcangelo, mitigato dalla stanchezza e dal caldo che non me li fanno apprezzare a dovere;
– la discesa sul sentiero, cinque, dieci, cento volte più stronza della salita;
– quella sensazione di inconsapevolezza lucida che mi fa fare il sentiero, come quando si entra in casa e si va a letto da ubriachi, si guida pensando ad altro, si guarda una partita di calcio;
– mi innamoro della cameriera del rifugio parlando di viaggi, poi penso che tra cinque minuti devo andare;
– interessante la discussione sulle tecniche per smettere di fumare tra i baristi del rifugio e avventori.
È l’ultima salita della tappa, potrebbe esserlo della mia vita. Chiedo a della gente del posto dove si trova il luogo dove devo andare a dormire, la loro occhiata è a dir poco eloquente sull’avvisarmi a cosa sarei andato incontro. L’inizio è illuminante:
“Ah, se mi avessi chiamato dieci minuti dopo non mi avresti più trovato lì!!”
“E non poteva chiamarmi??”
“Ah, ma io non so usare il telefono!”
Ad maiora semper.
Tappa 06 – da Filetto di Formia a Itri
Ogni cammino, di per sé, mette davanti a chi lo compie le esperienze più disparate, belle o brutte che siano. Ti lascia dei ricordi che, quando li si racconterà ad amici e conoscenti, possono pure lasciarti un sorriso se il tempo decanta a sufficienza.
Io spero vivamente che ciò accada con l’ospitalità di Filetto: perché, come disse uno, piuttosto che non parlarne bene è meglio non parlarne affatto.
L’ospitaliere mi dice: segui le indicazioni biancorosse (del CAI) e arrivi in cima.
La guida dice: seguire le indicazioni del CAI per salire sul monte Mesole.
Seguo le tracce del CAI e il GPS mi dice che sto andando fuori rotta.
Mavaffan…
Arrivo stanco a fondovalle, sull’altro versante c’è il relitto di un aereo caduto durante la Seconda Guerra e sarebbe pure bello da vedere se non fossi dietro a sputare pallini.
Una staccionata con filo spinato dà una parvenza di umanità dopo ore di sottobosco, non sono mai stato così contento di vedere del filo spinato in vita mia.
Come un angelo arrivato in aiuto giunge a prendermi Carla: non ha le ali e aureola, ma ci mette un cuore da volontaria, e amante di ciò che sta facendo, che neanche in cinque gruppi di cammini precedenti che ho fatto.
Carla mi tira fuori dalle secche e nell’ordine:
– mi porta all’azienda agricola Pelliccia, dove interrompiamo una festa di compleanno e scrocco una birra;
– mi fa scoprire degli scorci di una valle che fino a poco prima stavo maledicendo. “Secondo me il paradiso è fatto così!”;
– mi scarrozza in auto all’ostello Ossigeno, dove mi fa conoscere un luogo unico che consiglio di visitare se ci passate. “Noi stiamo per pranzare, pasta con sugo di salsiccia, se volete aggiungervi…”;
– mi accompagna sino al santuario Madonna della Civita, evitandomi chilometri di cammino su asfalto in orario assassino.
Ci lasciamo al santuario, io a proseguire a piedi, lei a pulire il sentiero per la tappa di domani.
Con qualche senso di colpa, ma neanche troppi, passo a piedi l’ameno centro di Raina per poi arrivare a Itri.
Su consiglio mi fermo in quel bar, così mi fanno il timbro per la credenziale:
“Ma noi non ce l’abbiamo il timbro, deve ancora arrivare!!”
Ma che cazzo…
“Se vuole le metto quello della pizzeria…”
“Ma sì, va benone!!”
In questa credenziale mancava ancora una partita IVA in effetti…
Un avventore mi rivolge la parola:
“Sei del Nord??”
“Eh, sì..”
“Certo, si sente dall’accento giapponese!”
Mi chiede del Cammino e mi offre una birra, purtroppo a malincuore devo declinare altrimenti non arrivo più a destinazione.
Davanti a me ho il golfo di Gaeta, sulla destra fa capolino la montagna spaccata, arrivo di domani e conclusione del Cammino. Fumo una sigaretta dal terrazzo e guardo giù.
Non può essere Filetti o Sargon per sempre.
Tappa 07 – da Itri a Gaeta
Quando mi hanno chiesto perché ho scelto questo Cammino, non sono mai stato in grado di dare una risposta chiara.
A questo punto posso considerare vari elementi che mi hanno spinto a farlo: primo tra tutti la voglia di vivere e vedere qualcosa di bello, dopo mesi grigi e mediocri – in un periodo che mi sono sentito spinto a essere così, pur sapendo di non esserlo. Fare poi qualcosa in cui so di riuscire, come camminare e raccontare. E poi tempo per riflettere.
Da queste parti, memore in parte del Cammino di San Benedetto – con cui in minima parte il San Filippo Neri “confina”, confidavo di trovare: paesaggi naturali quasi incontaminati, vita semplice, nessuna fretta e persone gentili.
È andata oltre ogni più rosea previsione.
Stavolta si può proprio dirlo: è il Cammino che ha scelto me, non viceversa.
Discesa veloce per poi lasciare il centro di Itri, breve tratto su una provinciale e poi, a una svolta, filari di ulivi, fichi d’india, muretti a secco e le onnipresenti cicale mi hanno accompagnato verso Gaeta.
È stato tutto molto semplice, quasi naturale. Anche nel punto più complicato, ovvero la discesa del tratturo, sapevo che il lavoro preventivo degli Amici del Cammino mi avrebbe aiutato a superare il momento di difficoltà.
Il segreto di questo Cammino, neanche troppo segreto: i volontari, o meglio Amici, del Cammino di San Filippo Neri. Persone che non si occupano solo di promuovere questo progetto, o di mantenere in condizioni buone i sentieri da percorrere.
Ho visto un gruppo animato da forte passione per quello che fa, amore per il proprio territorio e premura nei confronti degli ospiti in cammino su queste vie. Pur con tutte le imperfezioni del caso, che ci sono, ci mancherebbe; però imperfezioni a loro modo naturali, per un progetto nato meno di un anno fa. Nessuno si laurea in ingegneria e due giorni dopo costruisce un ponte, figurarsi, a ogni cosa il suo tempo.
Io mi auguro che loro rimangano così, continuino con questo spirito il più a lungo possibile.
Il tempo è nuvoloso, il mare è in lontananza, si avvicina sempre più. Talvolta affiorano pensieri di lavoro, provo a scacciarli in fondo, a fissarmi nella mente il paesaggio meraviglioso che mi circonda. Provo a realizzare che sto riuscendo a completare qualcosa, dopo un lungo periodo di azioni abbozzate senza un perché.
Entro in Viale Repubblica, sarà forse l’immaginazione a fare correre la mia mente ma in alcuni scorci sembra di riconoscere qualcosa dei vicoli di Napoli. I fili per il bucato si stendono sopra di me, il vociare degli abitanti di Gaeta occupa l’udito, in qualche piazzetta mercatini di ortofrutta e del pesce catturano l’attenzione.
Finito il viale c’è l’ultima salita, quella che porta al santuario della Montagna Spaccata.
Ormai sono arrivato.
L’abbraccio con Gabriella, altra amica del Cammino, mi fa sentire più accolto che arrivato alla conclusione. È una bella sensazione.
Apposti i timbri alla credenziale e al testimonium, e visto il mare dalla Caverna del Turco, posso proprio dirlo: è finita.
Il resto è un lento passaggio dal me camminatore al me di tutti i giorni, passaggio che avviene attraverso la fase intermedia del turista nella città dove è ospite: visita ai mercatini, un paio di romanzi comprati alle bancarelle, souvenir per i parenti, aperitivi in spiazzi suggestivi con monumenti sullo sfondo e la tiella mangiata in riva al mare.
Tutto molto molto bello e appagante.
Un grande classico del mio essere: alla fine il costume da bagno l’ho comprato, ma non ho fatto il tuffo in mare come da tradizione…
Dai, ci sta un piccolo premio prima di andare a nanna. E allora:
“Fai tutti i cocktail??”
“Sì!!”
“Mi fai un black mojito??”
“Che cos’è??!”
“…Dai, un amaro, su…”
Certe cose, forse, non cambiano mai…