Diari
13 Nov 2024

La Grande Traversata Elbana: alla scoperta del giardino incantato dell’Elba

Chiudi gli occhi e immagina di sbarcare su un’isola che sembra lontana da tutto, eppure così vicina. La traversata da Piombino all’Isola d’Elba è breve, ma sufficiente per lasciarsi alle spalle i pensieri quotidiani e abbracciare il ritmo lento del mare. Approdando a Cavo, l’aria fresca di mare rinvigorisce lo spirito e i sentieri che si snodano verso l’interno promettono nuove piacevoli scoperte.

Ogni passo lungo l’isola conduce tra antichi borghi, piccole insenature nascoste e panorami che abbracciano cielo e mare, donando la sensazione di essere un tutt’uno con la natura. E così, in compagnia del vento e dei profumi della macchia mediterranea, iniziamo questo viaggio alla scoperta di questa traversata tra cielo e mare. Pronti? Ecco a voi Agnese e il suo racconto alla community di Cammini d’Italia della sua Grande Traversata Elbana.

Tappa 00: Verso Cavo

La traversata da Piombino a Cavo è rapida, in aliscafo. Trovarmi in mezzo al mare mi aiuta a distrarmi dalle mie attuali circostanze travagliate le cui possibili vie d’uscita sono incerte e imprevedibili. Ho avuto la fortuna di poter partire per andare a camminare, e una parte di me mi sospinge a immaginare salite e mare su quell’isola che si definisce sempre più nelle sue forme, mentre ci avviciniamo. Ma forse stavolta non riuscirò a distaccarmi totalmente dalla terra ferma. Sarà comunque aria fresca per ritemprarmi un poco, pungolarmi, ispirarmi.

Anche l’isola d’Elba è un pesce, come la mia amata Venezia, a me connaturata, che mai mi tradisce, né io, tantomeno, lei. Innamoramento infinito, connubio innato. Ma avete notato quanto si somigliano nella forma?

Sono tentata di disegnare un “Canal Grande” a unire via acqua due porzioni d’Elba; il Monte Capanne finirebbe più o meno a “San Polo”, Capo di Poro sarebbe “Punta della Dogana”, il “Ponte dell’Accademia” cadrebbe poco a sud di San Piero in Campo, il “Palazzo Ducale” dalle parti della spiaggia di Lacona, mentre Porto Azzurro, là alla biforcazione della coda, sarebbe l’ingresso dal mare all’”Arsenale”.
E poi Porto Ferraio a “Castello”, Sant’Andrea a “Cannaregio” e così via.

Promette bene.

Passeggio nella minuscola Cavo nel tardo pomeriggio. Un brindisi per celebrare l’inizio di una nuova esplorazione, per breve che sia, ci starebbe bene, ma non mi fido della mia capacità di reggere l’alcool, per poco che sia, se mi aspetta una giornata di cammino ignoto. Con qualche compagno di cammino scendo a riva a vedere il mare tra noi e l’Isola dei Topi, un panettone di roccia erbosa che immagino pullulante di piccoli sorci che l’hanno colonizzata, stabilendovi una società tutta loro. Non ci andrei a vedere se è proprio così, preferisco lasciarla nel mistero.

L’Isola dei topi

L’acqua è fredda a metà maggio, non mi viene voglia di fare il bagno. Mi siedo sulla spiaggia e mi basta affidare lo sguardo al mare. Ma il segreto della spiaggetta di fronte all’isolotto misterioso si rivela la notte.

Dopo cena, con Laura e Paola, già colme, tutte e tre, dell’aria fresca di mare che spazza e rinnova, ci incamminiamo senza meta sulla strada principale di Cavo. Il cielo si fa sempre più buio mentre passeggiamo chiacchierando. Due gatti sbucano tra le sbarre di un cancello e cominciano a seguirci. Si fermano a guardarmi quando mi rivolgo a loro, poi ci superano in una corsa, aspettandoci poco più avanti. Senza accorgercene, ci ritroviamo sulla spiaggetta davanti all’isolotto, che delimita una piccola insenatura. Raggiunta la sabbia, ci scopriamo circondate da un tripudio di lucine intermittenti: uno sfavillio di lucciole lungo le rocce che racchiudono la spiaggia mentre questa si protende verso il mare.

È ormai buio pesto, il mare, nero-argentato, va e torna nel suo canto adesso tranquillo, le lucciole ricamano le basse pareti di roccia di disegni sempre nuovi che ora ci sono, ora si dissolvono, mentre altri si compongono, ma già si sono spenti.

È questa la realtà. 

Costruzioni e infrastrutture abbaglianti e rumorose urlano un’identità ammaliante ma illusoria, di cui si appropriano avvinghiandosi al palcoscenico fino a dissimularlo, a farlo scomparire. Ma il palcoscenico nella sua essenzialità primordiale non è uno sfondo vuoto, è la realtà fremente, dove si immagina, si crea, si condivide, si modella, senza sfregiare, senza distruggere. I disegni prendono forma, ne alimentano altri, scompaiono, forse riappaiono. O si trasfigurano. Uno strato inerte e apparentemente greve riveste il palco pulsante, ma è illusione. Lo si può penetrare facilmente se lo si riconosce, e disperdere.

Tappa 01: Cavo – Porto Azzurro

20 km, + 900 m/–900 m

La mattina dopo il cielo è velato e non fa troppo caldo. Partiamo subito in salita, tra arbusti e cespugli. Il sentiero si allontana presto dal mare per addentarsi nella macchia. Abbiamo una serie di colline da superare in un alternarsi di saliscendi con qualche strappo ripido e qualche tratto in cresta.

Attraversiamo il boschetto di lentisco che riveste le pendici del monte a cui dà il nome, la prima altura da raggiungere. Continuiamo verso il Monte Grosso, un paio di centinaia di metri più alto del primo. Siamo in collina, su un sentiero spesso sassoso, tra intrichi di rami e radici, una chiazza dalle innumerevoli sfumature verdi in mezzo all’azzurro del mare, cangiante sotto una sfilata di nuvole. Respiro aria di erbe e di mare, un balsamo purificatore.

È per me sempre una meraviglia camminare tra piante e fiori, ora seguendo dinanzi a me le ondulazioni delle colline che, coperte di verde fino alle ultime rocce, si immergono nel mare. Collina e mare in un unico sguardo. Non elementi distinti, ma aspetti di uno stesso organismo di cui faccio parte anch’io.

La fioritura è al culmine ora, a metà maggio. Cespugli punteggiati di bianco, giallo, rosa e poi il rosso dei papaveri. È soprattutto questa vegetazione florida che si esprime in colori, forme dalle geometrie precise o imprevedibilmente sinuose, fragranze distintive e armoniose che mi stupisce già dal primo giorno sui monti dell’Elba e continuerà a meravigliarmi e a riempirmi di gioia anche nei prossimi giorni. E poi questo sentirmi in montagna e al mare nello stesso momento, la sensazione pacificante di maggiore prossimità alla completezza.

Continuiamo in discesa verso Case Colli e poi su di nuovo, in direzione del Monte Strega. Il percorso è vario, il sentiero si insinua di tanto in tanto tra le pietre. A un certo punto, su un cocuzzolo alla nostra destra, comincia a definirsi una sagoma squadrata, in posizione dominante sul mare e sulle piccole valli e montagne che l’attorniano. Ha un’aria arcana ed evanescente, calamita il mio sguardo dandomi l’impressione di potersi scomporre nell’aria, sbriciolarsi, se per un secondo guardo altrove

Un miraggio?

È la fortezza del Volterraio. La sua origine è antica quanto gli Etruschi, che qui installarono una postazione di avvistamento per controllare non solo l’accesso dal mare all’Elba, ma anche qualsiasi movimento su quasi tutto il resto dell’isola, distesa ai suoi piedi e ben scrutabile nelle sue pieghe. La posizione è talmente strategica che, nei secoli, il presidio fu trasformato in una vera e propria fortezza, prima dalla Repubblica Marinara di Pisa e, più tardi, verso la metà del 1400, da Iacopo III d’Appiano, Signore di Piombino, a quanto pare, abile governante, amante della cultura, ma assai dispotico. Un ottimo lavoro, perché il Volterraio rimase inespugnabile, proteggendo gli Elbani che riuscirono a raggiungerlo e resistendo anche agli assedi dei Turchi che scorrazzarono per tutta l’Elba razziando impietosamente.

Terminate le sue mansioni di difesa, la fortezza fu abbandonata e lasciata in balia di acqua, vento, sole, salsedine, tempo. Ora parte del Parco Nazionale dell’Arcipelago Toscano, negli ultimi 25 anni è stata restaurata ed è quindi accessibile e visitabile. Non la raggiungiamo, ci accontentiamo di osservarla da un colle vicino, un po’ diroccata ed enigmatica, intrisa di secoli di voci, emozioni, vita, svettante dietro uno spensierato prato di papaveri, cardi rosa intenso, spighe.

Il Volterraio

Il sentiero prosegue in salita tra sassi e arbusti verso Cima del Monte per poi calarsi tra i prati fioriti, sempre più giù fino a inebriarsi di aria marina e approdare a Porto Azzurro.

La giornata sta per finire e qui ci fermiamo.

La sera, appena fa buio, non possiamo trattenerci dal provare a rinnovare lo stupore. Ci incamminiamo verso il mare, in direzione della spiaggia di Barbarossa. Le luci di Porto Azzurro si affievoliscono mentre caliamo sempre più nell’oscurità. Osserviamo con attenzione i cespugli sul bordo della strada scambiando poche, brevi parole, quasi che potessimo spaventarle, mentre il discorrere del mare, dapprima un mormorio frammentato, si fa sempre più coinvolgente. La notte è buia, ma stavolta di lucciole non se ne vedono. Forse dovremmo allontanarci dalla strada, su per la scaletta che poi ridiscende al mare, e avvicinarci alla spiaggia. Ma sono io la prima a rinunciare e a voler tornare. Sono soddisfatta così della giornata.

Tappa 02: Porto Azzurro – San Piero

18 km, +690 m/–500 m

Da Porto Azzurro ci riportiamo sul sentiero della Grande Traversata Elbana raggiungendo in autobus Casa Marchetti. Stiamo per attraversare la parte centrale dell’Elba. Il sentiero serpeggia tra cespugli fioriti e rigogliosi, e il mio passo si fa immediatamente più leggero mentre mi lascio pervadere dal profumo del rosmarino. Ci sono anche ginestre e corbezzoli, e presto ci troviamo ad attraversare un boschetto di questi ultimi. Le fronde formano una galleria che lascia filtrare, attenuandola, la luce del sole, e mi sento protetta mentre la percorro, come fosse un passaggio da una realtà ruvida e dura a un’altra verde, morbida, gioiosa, confortevole, dove tutto si svolge al ritmo giusto, senza forzature, si combina con naturalezza oppure scivola via, senza urti stizziti, senza lacerazioni, verso qualcosa di più consono, più somigliante.

Percorriamo la dorsale verso il Monte Orello, mentre la costa e il mare si allargano attorno a noi. Alla nostra destra, Portoferraio si distende, affacciata sulla rada; dalla parte opposta, capo Stella, sulla punta di una penisoletta, si divide tra il golfo omonimo e quello di Lacona. Anche oggi un saliscendi, ma il dislivello è minore, non ci sono strappi, il sentiero fluisce tranquillo.

Portoferraio, come appare dalle alture

Ricaricarsi nella quiete. Piante, bacche, fiori, cielo, mare, aromi, sole, brezza. Che ne so del domani? Io non mi annoio.

Continuiamo verso Marina di Campo che vediamo dall’alto e poi deviamo un po’ verso l’interno per raggiungere San Piero in Campo. San Piero sa di tranquillità silenziosa, nonostante i turisti (pochi in questo periodo, a dire il vero), e di antico. Passo tra le sue case dalle facciate chiare, raggiungo la piazza della chiesa. Qualcuno è seduto ai bar, qualche ragazzino mi sfreccia vicino in bicicletta, il negozio dei prodotti tipici è aperto ma ancora senza clienti. Ai margini di San Piero, raggiungo la terrazza del belvedere e qui scopro l’affascinante chiesa di San Nicolò. Affascinante e un poco inquietante perché nella sua atmosfera ho sentore di suoni e immagini arcaici, riti propiziatori, timori generati da una realtà inspiegabile se non attraverso gli umori di una moltitudine di dei imprevedibili. La chiesa cattolica sorse sul tempio di Glauco infatti, personaggio dalla genealogia incerta, che, nato uomo e divenuto pescatore, si tramutò in parte in pesce, venendo accolto tra le divinità marine.

Anche la struttura granitica, come quella della fortezza Pisana a cui la chiesa si appoggia, crea atmosfere remote e oscure, evoca altari di pietra, figure dai lineamenti squadrati scolpite su tavole e pilastri, la minaccia di castighi divini. Ma basta entrare per ritrovarsi tra i colori pastello degli affreschi, in un’aria avvolgente e confortante, una chiesa a due navate separate da colonne, ciascuna con un altare. Ritorno al belvedere la sera; le isole toscane si indovinano nel buio tra il mare e il cielo, confusi tra le stelle.

Tappa 03: San Piero – Chiessi

23 Km, +1100 m/–1200 m

Il cammino parte immediatamente tra cespugli e alberi, preannunciando anche oggi un percorso attraverso una vegetazione esuberante e fiorita. Ci addentriamo nelle foreste mediterranee del massiccio del Monte Capanne, la cima più alta dell’Elba. Mi emoziono al solo pensiero di vederlo da vicino.

Arriviamo presto al Santuario delle Farfalle sulle pendici del Monte Perone. Qui la particolare combinazione di erbe, piante e clima ha creato un ambiente ideale per varie specie di farfalle. Dei cartelli lungo il sentiero ne illustrano le particolarità e le fattezze per aiutare a identificarle. Mi guardo attorno, scruto fiori, intrichi di rami, cerco di penetrare con lo sguardo zone ombreggiate o seminascoste, cerco tra i sassi… L’aria è trasparente e fragrante, né secca, né umida, tiepida del primo sole, talvolta solleticata da un alito di brezza, ma non c’è battito d’ali alcuno.

La mia proverbiale incapacità di vedere l’elefante davanti al mio naso, che spesso si palesa, mi fa pensare per un attimo di essere circondata da farfalle svolazzanti e variopinte a me invisibili. Sgrano gli occhi, ma stavolta ho ragione io: di farfalle non ce ne sono. Neanche una. Sarà la stagione, l’ora mattutina, la temperatura… non lo so e non chiedo.

Il sentiero è bello comunque, mi sento avviluppata delicatamente da questi alberi e cespugli traboccanti di linfa, di profumi, di vita, che si infoltiscono e si estendono come mi inoltro tra di loro. Continuando a salire, il sentiero diventa più sassoso, la vegetazione si rimpicciolisce: il paesaggio è ora più aspro, alberi e arbusti appaiono compatti e robusti, i fiori dei puntini, che però non rinunciano a sfolgorare di vita.

Finalmente, in fondo, al di là della cresta che stiamo percorrendo, scorgo il Monte Capanne. Il percorso di oggi ci porta alla sua base. In lieve discesa entriamo in un bosco dove, al riparo dal sole più intenso, i cespugli si allargano e le felci si spingono tra i sassi del sentiero. Queste piante così indomabili nel loro essere e così estroverse mi tengono compagnia. Al mio passaggio, si stabilisce un’interazione: il mio sguardo su di loro, lo sfiorarsi, le sensazioni che mi suscitano. Lo percepisco come un dialogo, uno scambio.

Arriviamo a una pietraia un po’ scoscesa che attraversiamo in leggerezza.

Il Monte Capanne è vicino e mi chiama. Lo trovo bello. È una presenza distintiva, si stacca dal paesaggio che lo circonda per fattezze e colori. Da qui, lo vedo in parte ricoperto di un bosco fitto, verde scuro che, quasi d’improvviso, lascia spazio alla roccia. Le sue pendici diventano allora biancastre, si distendono e quindi, più o meno centralmente, si increspano nella vetta quasi triangolare che domina tutta l’isola.

Il Monte Capanne

È ancora selvaggio nella sua natura, nonostante la funivia che ne raggiunge la cima. Una funivia bizzarra, con cestelli al posto delle cabine. Ma io vorrei percorrerlo a piedi, oltrepassare la piattaforma di arrivo della funivia e raggiungere, se posso, la sua roccia più alta.

Forse, un giorno…

Entriamo nel bosco e iniziamo una discesa piuttosto ripida e un po’ scivolosa. La terra sul sentiero e tra gli alberi è smossa in zolle e buche. Lo noto ma non ci faccio caso più di tanto e continuo la discesa saltellando dove posso per evitare le buche. “Tremenda questa discesa!” sento dire da qualcuno che mi precede “i cinghiali hanno rovinato il sentiero, è impraticabile!” Non me ne ero davvero accorta, né che quei rivoltamenti di terra fossero opera dei cinghiali, né che la discesa fosse impercorribile. Punti di vista, come sempre.

Usciti dal bosco, della cui frescura mi sono abbeverata mentre scivolavo di zolla in zolla, ci avviamo verso Marciana. È piacevole fermarsi in paese una mezz’ora per mangiare qualcosa, riprendere le forze e ripartire perché il cammino oggi è ancora lungo.

Di Marciana vedo poco: ricordo una piazzetta con un negozietto di chincaglierie —o ricordi— e una strada a lastroni che da lì comincia a salire. La prendiamo e, anche se cammino lentamente, i miei passi ora sono pesanti. La stradina si inerpica sempre più sotto il mio respiro un po’ affannato e, presto, raggiungo la prima edicola. Stiamo infatti seguendo la Via Crucis che porta al Santuario della Madonna del Monte. Il percorso è piacevole, silenzioso, un poco arieggiato. Le cappelle scandiscono il nostro avanzare, dando una misura del cammino già fatto e di quello che ancora ci aspetta, della fatica sopportata e di quella che ancora dovrò patire. Sono conscia del contrasto: la tranquillità di questo luogo che come tanti, un po’ appartati, ispira il silenzio interiore e il mio sforzo sproporzionato rispetto alla salita. Ma so bene che è l’effetto del pranzo veloce seguito da una rapida ripartenza.

Non mi preoccupo quindi, arranco serena di cappella in cappella, contandole alla rovescia tra me e me e osservando i monti lontani pieni di primavera. La stradina continua ad arrampicarsi fino a uno spiazzo dove si erge il Santuario, di antica fondazione, risalente all’epoca romanica. Mi fermo pochi minuti per vedere la chiesa e il Teatro della Fonte, una singolare esedra in granito da cui sgorga l’acqua che arriva dal Monte Capanne.

Continuiamo il cammino inoltrandoci lungo il fianco del Monte Giove. Saranno i raggi del sole che cominciano a inclinarsi un poco rendendo i colori più morbidi, la vegetazione festosa che ancora si stringe a me nel mio andare, la pendenza decisamente più dolce, sarà tutto questo che d’un tratto spazza da me ogni stanchezza e mi sento di nuovo lieve. Il sentiero è decisamente panoramico, inciso sul fianco della montagna come un balcone sul mare. Piante turgide dalle foglie larghe e scintillanti si accompagnano ad alberi e arbusti compatti, di un verde un po’ opaco, che esplodono di foglie, spesso sottili, e di fiori colorati, spesso minuscoli. Il loro manifestarsi è un richiamo, come se cercassero attenzione, riconoscimento, e io sento, rispondo e mi rallegro assai di questa compagnia.

Poi si riprende a salire fino a una delle mete provvisorie di questa giornata, la cima del Troppolo, poco meno di 700 metri. È una meta perché da qui ci incamminiamo sul versante opposto della montagna imboccando una lunga discesa.

Le discese sono spesso sfiancanti e noiose se lunghe, ma questa non mi pesa. La percorro nell’abbraccio di fiori e piante, di tanto in tanto lasciando lo sguardo veleggiare sul mare, e anche se verso la fine le gambe cominciano a irrigidirsi, non mi viene mai da sbuffare. Raggiungiamo il piccolo paese di Chiessi, accovacciato in riva al mare. Dopo poco, sulla riva del mare, mi lascio immergere lentamente nella luce aranciata del sole.

Tappa 04: Chiessi – San Piero

12 Km, +800 m/–300 m

Mattino presto, ci incamminiamo verso sud in direzione di Pomonte, costeggiando per un buon tratto il mare. Il paese non si è ancora svegliato, qualcuno si affaccia a una finestra, un uomo legge il giornale seduto su una panchina. Faccio scorta d’acqua a una fontana in paese, poi ci dirigiamo di nuovo verso le montagne per percorrere una parte della GTE meridionale. Inizialmente, il sentiero si snoda di nuovo in un giardino naturale di arbusti fioriti, è facile, qua e là sassoso. Salendo dolcemente, la vegetazione cambia, e gradatamente entriamo in un bosco. 

Il sentiero diventa più sconnesso e spesso sparisce tra fronde e massi, mentre il bosco si infittisce. La luce che filtra tra i rami colora l’aria di verde e crea un ambiente avvolgente e intimo, in cui mi sento una visitatrice gradita. Ci inerpichiamo su alcuni sassi cercando tracce del sentiero ma presto ci troviamo circondati da cespugli: il sentiero si è perso, inglobato nel bosco. Mi accorgo che l’unico modo per superare il piccolo ammasso di pietre è raggirarlo, arrampicandosi per un breve tratto lungo i suoi margini, tra fessure e spuntoni. Ancora pochi passi sommersi dalla folta vegetazione, ed ecco che il cammino può riprendere tranquillamente.

Emersi dal bosco, la via spiana, e riappare, lontano, il mare. Continuiamo a camminare lungo la cresta della montagna, il sentiero ora è più ampio e coperto di pietre. A poco a poco, la cima della montagna si allarga in una distesa di massi dalle forme stravaganti, incorniciati e in parte ricoperti da cespugli fioriti che si mescolano imprevedibilmente in forme variopinte e profumate. Mi sembra di essere in un parco di giochi, vago per la cima tra gli arbusti alla scoperta di nuove rocce, mi arrampico su alcune di queste, cerco nuovi panorami, nuove visioni, mi chino seguendo aromi, tasto delicatamente i cespugli per sentirne la ruvidezza sul palmo della mano, ne accarezzo le foglie minute.

Dopo vari minuti di svago e di esplorazione di questa cima accogliente, continuiamo il cammino tra quelli che un tempo erano pascoli. I pastori portavano qui le loro greggi e si riparavano nei caprili, dove potevano accendere un fuoco per scaldarsi e cucinare qualcosa. Ci sono ancora diverse di queste costruzioni di pietra che assomigliano a dei nuraghi in miniatura o a degli igloo di sasso e che ancora conservano all’interno i resti di un focolare sotto uno sfiatatoio.

Proseguiamo oltre i caprili, e presto il sentiero comincia a scendere e la montagna a degradare, nelle sue svariate sfumature di verde, verso il mare. Siamo ormai sulla via del ritorno, diretti di nuovo a San Piero. Una lunga discesa ci porta in paese. Attraverso la piazza della chiesa, costeggio la fontana, e anche stavolta San Piero mi infonde una sensazione di tranquillità: mi appare pacificamente in attesa di qualcuno che arrivi, passi, vada. San Piero osserva, accoglie e lascia andare, senza che la propria serenità ne sia scalfita.

È qui che lasciamo la GTE e il giardino fiorito dell’Elba.

In pulmino raggiungiamo Porto Ferraio per poi prendere il mare. Un poco acquietata, “ritorno in continente”.

Articolo di
Agnese Mariotti

Cammino e scrivo. Per me, camminare è esplorare, esteriormente
e interiormente; scrivere è ricordare, elaborare e fissare immagini ed emozioni e,
soprattutto, condividerle per suscitare sogni e, magari, un dialogo.
Altri racconti nel mio blog Montagne e Orizzonti
https://montagneorizzonti.blogspot.com/